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Missione negli Stati Uniti (agosto 1958 - giugno 1959) - di Giacomo Ferrera

 

 I disegni che si trovano

in questa pagina sono stati realizzati da

Maria Concetta Pasquale,

 

 

 

 

 

UNO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DUE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TRE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quattro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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APPENDICE : INCONTRI INTERNAZIONALI

Uno

Il secondo conflitto mondiale terminò lasciando il mondo diviso in due blocchi: da un lato, la Russia sovietica, con tutti i suoi satelliti. Dall'altro, gli Stati Uniti con tutte le nazioni del patto Atlantico. Mentre la Russia sovietica uscì dal conflitto esausta e con l'economia sconvolta, tutto il contrario avvenne degli Stati Uniti: produzione industriale in piena espansione, produzione agricola florida, potenza militare in terra, in mare ed in cielo inarrestabile. All'epoca, paragonai gli Stati Uniti alla Roma imperiale dell'età di Augusto, trionfante su tutti i fronti: se da un lato ci furono anche eventi infausti, come Varo sconfitto da Arminio in Germania, d'altra parte si dovette registrare un recente rovescio in Corea e nuovi pericoli di guerra in Vietnam. La diplomazia andò ancora oltre e fece suo il motto virgiliano a proposito della missione di Roma nel mondo: Hae tibi erunt artes, paci imponere mores, parcere subiectis et debellare superbos: questi saranno i tuoi compiti, dare un assetto alla pace, perdonare chi sia assoggetta e sconfiggere i prepotenti. Un altro motto latino, ben conosciuto, venne utilizzato a tal proposito ma non dalla diplomazia, bensì da chi governava la macchina militare: “si vis pacem, para bellum” se vuoi la pace, preparati per la guerra. Così sei pronto a levare dalla testa di chiunque l'idea di guerreggiare.

Fu così che gli americani misero i loro mezzi, i loro vasti campi di addestramento, i loro istruttori a disposizione degli alleati e, nel nostro caso, di tutti quelli del patto Atlantico. Fu così che toccò a me, maggiore di fanteria, frequentare l'anno scolastico luglio 1958-giugno 1959 a Fort Benning in Georgia (USA). Altri ufficiali e sottufficiali di vario grado furono inviati a frequentare altri corsi (motorizzazione, carristi, elicotteri, trasmissioni, artiglieri, genieri, ecc).

Fu un'esperienza meravigliosa per tutti, a livello internazionale: là ci trovammo tutti riuniti, nelle stesse aule: americani, giapponesi, europei, sud-est asiatico, africani… I centri di addestramento e i loro supporti traevano al nome degli antichi forti: Fort Hamilton, Fort Benning, Fort Apache, Fort Monroe, Fort Sumter... E non hanno più i recinti di pali aguzzi come quelle dei primi pionieri: in genere sono enormi estensioni su cui manovrano mezzi di ogni genere, terrestri, aerei, anfibi. Il mondo ha camminato, fin troppo.

Due

Mio vicino di camera era il maggiore Nozoe, giapponese. Saputo che stavo poco bene per una leggera influenza, bussò alla mia porta, fece un tipico inchino orientale e mi offrì una pillola che somigliava ad una aspirina. Ringraziai, la presi e quella subito fece effetto. Diventammo amici e talvolta studiavamo insieme. Mi raccontò che da capitano, al comando di una compagnia di fanteria, prese parte alla conquista di Singapore da parte dei giapponesi, anno 1942. Quella formidabile fortezza era colonia inglese, armata con canoni di marina. A chiamare, imprendibile da terra perché difesa da paludi. Invece l'allora capitano Nozoe, naturalmente non da solo, ma inquadrato in una grande unità, attaccò da terra, attraversando paludi e sabbie mobili, reggendo i fucili Arisaka e le mitragliatrici Nambù e relative munizioni dell'arte sulle spalle perché non si bagnassero o si infangassero. Tennero Singapore fino al 1945.

Bravissimo disegnatore e calligrafo perfetto. Un giorno, si mise sopra una sedia, sedette sulle sue gambe incrociate come fanno gli asiatici, si munì di pennello, carte e boccetta d'inchiostro e tracciò con quattro pennellate da gran maestro un cavallo in corsa: il movimento era reso alla perfezione. Mi dispiace di non averlo conservato! Conservai invece il saluto all'ospite che entra in casa (calligrafia artistica) e l'autunno, una delle quattro stagioni, opera di un loro poeta Samurai, lustro del loro Rinascimento.

A fine corso, ognuno di noi tornò in patria e solo allora seppi che Nozoe era pittore accademico di scuola giapponese, di una certa fama. Venne a Firenze e a Venezia a visitare i nostri musei e poi andò in Austria a dipingere quelle montagne. Mi mandò le fotografie: bellissime! Ma perché non mi  avvertì quando passò da Venezia? Io ero là! Occasione di incontro mancata…

Lo scorso fine anno non ha risposto ai miei saluti augurali; mi rispose il figlio, desolato. Mi disse che il padre si era spento nel sonno. Risposi esprimendo subito le mie condoglianze e aggiunsi: sia fiero e orgoglioso di cotanto padre, soldato valoroso, persona dotta, artista raffinato. Possa riposare in pace nel cielo degli eroi e degli spiriti eletti.

Tre

Mi accorsi di lui di quando, alla fine degli esercizi fisici, si andava in fitta schiera sotto le docce vestiti come Adamo: pensavo, e non ero soltanto io a immaginarmelo, che tutti quei segni sulla sua persona fossero conseguenza di maltrattamenti o di disavventure belliche; invece si trattava di ben altro!

Quando fu il suo turno, tenne una conferenza a classe riunita e ci spiegò, nel suo inglese piuttosto stentato ma sempre chiarissimo, che la mattina del 6 agosto 1945 egli, maggiore dell'imperiale esercito nipponico, era a casa sua, alla periferia di Hiroshima, capo di stato maggiore di una divisione metropolitana. Era in atto un allarme aereo ed egli, sulla porta di casa sua con in mano una tazza di caffè, guardò il cielo e vide giungere in volo una super fortezza americana che sganciò quella che lui pensava fosse una delle solite bombe o qualcosa di impreciso. Seguì una gran luce accecante e una enorme vampata di calore. Pensò che gli americani, con quella super fortezza, avessero liberato diversi gas in modo da formare una nube di miscela tonante di grandi dimensioni. Ci fu infatti lo scoppio, l'espansione e quindi il gigantesco riequilibrio della pressione atmosferica con trascinamento verso il centro, la formazione della colonna verso l'alto e infine l'espansione costituita dal mostruoso fungo formatosi in cielo.

Egli poi aggiunse: mi trovai senza tazza di caffè, mi voltai, la nostra casa non c'era più, tutto attorno fiamme e distruzione. Disse anche che indossava un'uniforme estiva, senza giacca, e il bianco della tela lo salvò dalla vampa di calore per effetto del fenomeno di riflessione. Ma aveva indosso le bretelle nere e quelle, al giungere della vampata, gli restarono stampate sulla pelle e sulla schiena… Ma c'era ancora una terza insidia di cui egli fu vittima, quella invisibile, che non perdona: la radiazione gamma, causa di morte lenta per leucemia. E questo egli lo seppe dopo…

Fece a noi tutti una gran pena perché era buono, rassegnato. Nei nostri compiti scritti e orali centrava i problemi, li risolveva, stupiva tutti per la profonda preparazione professionale.

Fu la persona più intelligente che mi capitò di conoscere. Lo ricordo seduto sul tappeto a gambe incrociate e braccia ai fianchi, in meditazione: si congiungeva con la mente con lo spirito degli antenati. Proprio lui, il maggiore Tanaka.

Quattro

Ci vedevano  sempre assieme, procedevamo affiancati da un'aula all'altra, da un campo di addestramento all'altro, sempre assieme. Finimmo per essere soprannominati i tre moschettieri per questo nostro comportamento, e non per altri motivi. Eravamo un inglese, un austriaco e un italiano, e precisamente io, presenti e ammessi a quell'anno scolastico, unici europei.

L'inglese aveva combattuto contro di noi in Africa settentrionale. Quando sotto le docce comuni gli chiesi il motivo di quella brutta cicatrice sul ventre, mi rispose:- Sorry, è stato un mitragliere italiano che mi ha sparato quando ero di pattuglia… Così, con semplicità e senza rancore.

Diversa la storia dell'austriaco: era reduce dal fronte russo, aveva partecipato alla grande ritirata dell'esercito tedesco dopo essere giunto quasi a Mosca. Suo padre era stato fatto prigioniero dagli italiani a Doberdò dal reggimento in cui militava mio padre. Serbava un buon ricordo dal comandante del campo di prigionia italiano, un certo capitano Della Rocca.

L'inglese e l'austriaco andavano perfettamente d'accordo, specie quando andavano in cerca di facili avventure, lontani da casa loro, ma in tali eventi non trovarono in un socio né un complice; anzi, li disapprovavo apertamente.

Chi altri incontrai? Un argentino di cavalleria, soprannominato "El Gringo", sempre molto pieno di sé. Un cileno il cui nome anni dopo apparve nella cronaca della loro guerra civile endemica e periodica. Un peruviano dalla faccia color mattone, che mi ricordava quella dell'imperatore Montezuma, che mi ripeteva: nosotros latinos dobbiamo civilizzare todo el mundo! E con che serietà!

Un ufficiale abissino mandato dal Negus tornato sul trono del re dei re, riconquistato dopo l'ultima guerra coloniale italiana. Il suo contegno nei miei confronti era freddo e distaccato e non poteva essere diversamente. Mi parlava dei problemi del suo paese e lamentava la cronica mancanza di scuole; ma erano i maestri quello che vi mancavano, e ora non li potete improvvisare.. Poi un ufficiale eritreo, che appena mi vide mi abbracciò con uno slancio che stupì l'inglese che era con me e che disse testualmente: noi siamo andati in Africa per prendere, ma voi italiani per dare. L’eritreo era di Asmara, parlava un italiano perfetto, con un lieve accento sardo, come il missionario che l'aveva istruito. Mi rimproverò perché avevo perso una messa. Per errore, ero andato dai protestanti anglicani che anziché leggere Deus meus pronunciavano Diàius miaius, miagolando come gatti.

 

Giacomo Ferrera