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L'affondamento del sommergibile Console Generale Liuzzi  27 giugno 1940

 

 

Il sommergibile

 

 

I luoghi

 

Ricordino funebre

per la morte presunta

 

Encomio solenne

tributato il 31 gennaio 1948

 

 

 

Avevo vent’anni il 10 giugno 1940 quando scoppiò la guerra  e mi ritrovai già il 16 giugno in missione  come silurista di un equipaggio composto da 7 ufficiali e 50 fra sottufficiali e marinai, sul sommergibile  “Console Generale Liuzzi” della Regia Marina Italiana, affondato in combattimento il 27 giugno 1940.

La mia unità era stata destinata ad operare nel Mediterraneo orientale, nella zona d’agguato al largo di Famagosta,  tra Alessandria d’Egitto, dove c’era la base inglese, e Ismailia, con l’incarico di attaccare le navi nemiche che navigavano fra Cipro, la Siria e l’Egitto. Dopo 9 giorni di missione, il 25 giugno ci fu ordinato di rientrare per dirigerci verso l’Oceano Atlantico. Il nostro sommergibile infatti era oceanico ed era uno dei più grandi: avevamo a bordo un cannone, un mitragliere e ben 16 siluri .

Verso l’imbrunire, fra Cipro e Candia fummo avvistati da 5 cacciatorpediniere inglesi. Io mi trovavo a prua, quando sentii la sirena di allarme. Scendemmo con una immersione rapida a 100 metri ma subimmo la carica di dieci bombe di profondità. Allora continuammo a scendere a 120 metri di profondità e arrivò un’altra carica di dieci bombe: 180 chili di tritolo ciascuna.  Era il finimondo. Proseguimmo nella discesa sino a 150 metri, ma arrivarono altre bombe: ne contammo in totale 60. Il sommergibile era ormai ingovernabile, tutti gli strumenti di bordo erano distrutti così come avevamo perso tutta l’attrezzatura. Il nostro comandante, il capitano di corvetta Lorenzo Bezzi, quando eravamo già a 190 metri di profondità, decise di emergere. La situazione era assai critica: immersi nel buio più totale, con gli strumenti in disuso e gli equipaggiamenti rovesciati; una cosa spaventosa.

Il comandante con l’ingegnere navale diedero a quel punto l’ordine di emergere e poiché non eravamo più in grado di difenderci, una volta emersi, ci ordinò di uscire dal sommergibile attraverso la torretta perché il sommergibile stava ormai per affondare. Noi che eravamo a prua uscimmo per ultimi. Allora Il comandante ci ordinò di buttarci tutti in mare perché nessuno voleva abbandonare il sommergibile; con il suo ordine  “buttatevi tutti quanti in mare”  fummo costretti ad obbedire e a tuffarci in acqua. Subito alcuni  caccia ci bombardarono con un paio di cannonate: una colpì proprio la prua.  Il comandante, quando vide che eravamo tutti in mare, ritornò all’interno del sommergibile e vi si rinchiuse andando a fondo assieme ad esso. Oggi è stato decorato con la medaglia d’oro al valor militare e la Scuola Sottufficiali di Taranto, che è la più prestigiosa d'Italia, porta in suo onore il suo nome: Lorenzo Bezzi.

Quelli che  erano vicino ai caccia furono presi a bordo e immediatamente  catturati; noi invece, che eravamo in una zona più lontana, non fummo avvistati subito ed io rimasi in acqua per quasi 5 ore. Ormai era notte: un mare tempestoso  mi mandava su e giù e non facevo altro che pregare Dio e la Madonna. Sentivo che le forze mi abbandonavano, oramai ero  stremato e non ce la facevo più: quando già pensavo che sarei morto, vidi una grande ombra avvicinarsi; mi sembrò una montagna e persi conoscenza.

Era invece un caccia che mi soccorse e mi prese a bordo: ripresi i sensi mentre mi rianimavano; il medico mi fece delle iniezioni e mi accorsi che ci eravamo salvati soltanto in tre. Ricordo ancora le parole del mio compagno che mi disse: ”Coraggio De Montis, siamo salvi.”

Ci sbarcarono ad Alessandria d’Egitto e da lì ci portarono ad Ismailia nei pressi di Suez come prigionieri di guerra; dopo quattro mesi ci portarono in India, ad un centinaio di chilometri da Bombay, dove ho trascorso ben 5 anni di prigionia: 5 anni di reticolato sono molto duri! era una vitaccia… sembrava che questi anni non dovessero finire mai.

Durante la prigionia in India chiedevo sempre di un amico che era stato imbarcato sul Tigre e all’epoca si trovava in Etiopia. Si chiamava Novario Mura e venni a sapere che era stato catturato anche lui e che si trovava proprio nel campo di prigionia situato di fronte al mio, ad una distanza di circa sessanta metri. Corsi subito a cercarlo e lo trovai, ma con mia grande meraviglia non mi riconobbe subito: dovetti ricordargli chi ero, ma lui restava quasi indifferente e mi disse che non poteva credere a ciò che dicevo, perché aveva saputo dai giornali ed anche dalla famiglia che ero morto nell’affondamento del sommergibile. Ci volle un po’ per convincerlo che ero proprio io, il suo grande amico di sempre e che fortunatamente ero sopravvissuto.

Novario allora mi raccontò della grande pena dei miei familiari e della Messa in suffragio che fecero celebrare il 12 agosto del 1940, durante la quale, secondo l’usanza, consegnarono a tutti i presenti il ricordino funebre con la mia fotografia. Quando tornai a casa, dopo aver comunicato per lettera che ero ancora in vita, nessuno mi disse che mi avevano creduto morto in combattimento, ma io trovai – conservato in un cassetto - il ricordino che era stato consegnato durante la Messa in suffragio e che riportava queste parole: “Gesuino Demontis, caduto in un’azione di guerra nel mare di Roma. Presente nei nostri cuori che non piangono ma orgogliosi di aver offerto in olocausto alla Patria, perché essa sia sempre più grande, quanto di più caro avevamo. Genitori, fratelli, sorelle rendono con le funerali espiazioni il supremo tributo di religione e d’amore”. Ringrazio Dio per essermi salvato:  nove furono i morti del mio equipaggio  ed io sono oggi l’unico superstite ancora in vita e, a 92 anni,  posso dire che godo ancora di buona salute.

 

 

(memorie di Gesuino De Montis raccolte da Liliana Manconi)