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Ai margini della guerra in Nord Africa (dal 1940 in poi) - di Giacomo Ferrera

 

Le immaginii che si trovano

in questa pagina sono di Teresa Ducci,

Lucia Maria Izzo, Liliana Manconi,

Sebastiana Schillaci

oasi

 

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Dopo tanta sabbia con vento, nuvole di polvere e cumuli di sassi calcinati dal sole cocente, ecco un po' di ristoro!

L'oasi du Gabes in Tunisia ci apparve come la Terra Promessa e ci accolse sotto l'ombrello del suo verde meraviglioso. Con noi c'era un cane, nato nel deserto e cresciuto convinto che tutto il mondo fosse proprio così, abitato soltanto da soldati come noi e da qualche cammello in lontananza. Quando vide un prato, dopo un primo esame, cominciò a correre avanti e indietro latrando, come impazzito, per la gioia di sentirsi spazzolato e spolverato dalle erbe e dai cespugli che attraversava di corsa. Un cammello, appena arrivato dal deserto, andò dritto verso un campicello di orzo ancora verdeggiante e cominciò a coglierne grossi bocconi roteando gli occhi tutto soddisfatto, mentre il cammelliere e il padrone del campo tentavano invano di trascinarlo via.

Nell'oasi ci facemmo un amico: Alì. Era un uomo semplice, viveva nel suo orticello dove coltivava piselli, fave, patate e altri ortaggi a ridosso di alcune palme da datteri.

- Alì, tu hai decapitato una palma e ne raccogli la linfa per farti il vino: è proibito! Il profeta non vuole.
- Ma io bevo di notte! Chiudo finestre, spengo lume e Allah non vede.

Con il suo sistema, Alì pensava di mettersi a posto con la coscienza, si faceva le sue belle bevute ed era felice così. Ragionava con noi e faceva le sue brave considerazioni.

- Venire francesi e comandare ...... venire italiani e comandare... venire tedeschi e comandare... venire Inglisch e comandare... e arabo meschino non comandare mai.

Insomma, già allora il venticello dell'indipendenza cominciava a farsi sentire: anche Alì ne avvertiva il soffio.

Parecchio tempo dopo ci capitò di conoscere un commerciante arabo che si chiama Mahamud: aveva una pancia rispettabile e, quando stava seduto, pareva che se la deponesse sulle ginocchia. Abitava nei pressi del Canale di Suez e vendeva frutta e verdura. All'epoca in cui lo conoscemmo, aveva sposato la sua quarta moglie; non entriamo in particolari ulteriori, perché sono affari suoi. Furbo come un gatto, stava sempre attento perché non gli rubassero qualche frutto e alzava il dito ammonitore e ci diceva:

- State attenti: Allah vede tutto!

A questo punto che dobbiamo chiederci se Allah di notte non ci veda o se veda comunque tutto, come ammonisce Mahamud.

Il nostro contatto con il mondo arabo ci fece conoscere i pilastri della loro fede: la preghiera, l'elemosina, il pellegrinaggio alla Mecca. La preghiera, individuale o collettiva, scandisce l'attività della giornata: quando è il momento, il fedele si volge verso la Mecca e ognuno sa dove si trovi. Se non ci si può inginocchiare nell'apposito tappetino da preghiera, si traccia un rettangolo per terra o sulla sabbia del deserto, sempre in direzione della Mecca. Dovunque i fedeli si trovino, hanno il sole o le stelle come bussola e come orologio e non sbagliano mai perché da sempre sono a contatto con la natura e con i loro vasti orizzonti. Capita sovente di vedere qualcuno, seduto, che prega con una specie di rosario in mano, sommessamente e tutto compreso nell'orazione; ma quanti "stimoli distraenti" ci sono in giro! La preghiera appare talora ripetitiva, automatica e non meditata.

L'elemosina dovrebbe aiutare poveri per eliminare miseria e invece la loro società mostra la ricchezza accumulata in poche mani e uno stato generale di povertà cronica, e allora?

Il precetto del pellegrinaggio alla Mecca, una volta nella vita, ha unito e tiene uniti popoli diversi professanti un'unica fede. Il pellegrino, sia durante il viaggio, sia alla città santa, sia sulla via del ritorno viene istruito ed educato, quindi poi è in grado di essere a sua volta guida e maestro per i fedeli. Vedevamo sovente persone a piedi salmodianti in pellegrinaggio, di andata o di ritorno, e analogamente lunghe file di cammelli che affrontavano il deserto in tutta la sua estensione.

l'Islam lo si sentiva nell'aria. In quell'ambiente i nostri missionari trovavano infinite difficoltà, perché qui non si trattava di cose, di convertire selvaggi, ma di trattare con gente che era già imbevuta di una religione che poggia sulle basi solide del monoteismo. Ne sapevano qualcosa gli ufficiali delle nostre colonie di allora, i quali per affinità di cultura mantenevano contatti con i nostri missionari.

Un mio amico fermò un bambino uscito da una missione e gli domandò cosa avesse imparato. Quello rispose: il Paternostro. Invitato a recitarlo, egli lo fece da bravo, accompagnando con i gesti appropriati delle mani e con lo sguardo ogni espressione della preghiera, così come aveva insegnato il missionario con la sua santa pazienza.

- Bravo bambino! Allora tu sei cristiano?
- No, io sono musulmano.

Risultati da scoraggiare un santo. ma allora, quando ci confrontiamo, come possiamo mostrare il lato migliore di noi stessi? Penso: con il messaggio evangelico, perché contiene la nostra grande forza morale.

 

Giacomo Ferrera, 2005