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Missione negli Stati Uniti (agosto 1958 - giugno 1959) - di Giacomo Ferrera

 

 I disegni che si trovano

in questa pagina sono stati

eseguiti dall'autore del testo

e rielaborati da  Adele Chiappisi

e Teresa Ducci

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo II: Da New York a Columbus (Georgia)

Alla stazione di New York, mentre aspetto il treno, un negro mi gironzola attorno e adocchia il bagaglio. Una signorina, invece, adocchia un poliziotto e sussurra qualcosa. Il poliziotto, a sua volta, si avvicina e dice qualcosa al negro, che si allontana e sparisce; quindi mi chiede se possa essermi utile.
- Sì, grazie! Prendere il treno e il vagone giusto. Ecco i documenti.
Risponde che ci pensa lui. Difatti, quando il treno arriva, il poliziotto mi indica il vagone SRY1, Roomette n. 5, come da biglietto. Salgo. Il treno riparte. Il poliziotto, dal marciapiede, mi fa un saluto impeccabile, al quale rispondo, e ringrazio. Ma che cosa è questa "roomette"? E' un posto di prima classe per un passeggero, con tutti i comodi: sedile, letto, tavolino, attaccapanni, portabagagli, gabinetto, tutto in piccolo spazio. Se dovessi ricevere una seconda persona, uno dei due può accomodarsi sul coperchio del gabinetto, che serve anche per questo.

Il viaggio è lungo perché dura tutto il giorno, tutta la notte e buona parte dell'indomani. Non è poi molto comodo, perché rotaie, traversine e massicciata devono essere piuttosto "all'onda del mar", tanti sono gli scossoni e i sobbalzi. Ecco perché, nel 1945, vidi i genieri americani che guardavano con curiosità e con interesse professionale le rotaie della linea Roma-Firenze che si presentavano dritte, lineari e perfette nei tratti non bombardati. Ma qui c'è da farsi venire il mal di mare.

In corridoio mi capita una avventura di viaggio davvero singolare: incontro un giovane padre gesuita con il breviario in mano che mi guarda e chiede da dove io venga. Quando viene a sapere che sono italiano, il suo viso si illumina.
- Allora lei conosce il latino! Venga, venga con me: vorrei qualche chiarimento.
Come è noto, tutti gli italiani conoscono il latino e possono dare chiarimenti in materia.
Quando entro nella sua "roomette" mi fa sedere sul coperchio del gabinetto, mi offre un liquore dolciastro e poi, terminati i convenevoli, apre il breviario e me lo porge. Do un'occhiata e leggo:
- Magnificat anima mea Dominum. Et exsultavit spiritus meus in Deo salvatore meo.
E' uno dei salmi che da bambini cantavamo in coro.
Lo prego di farmi sentire come legge: sento cose inaudite!
- Meigh-nèificat èinema mia Dòumenam. It ixiultèivit spìritas mias in Dìou Salvatòuri mìau.
Pazientemente, parola per parola, indico la pronuncia esatta. Così torniamo alla maestà del latino, che non è il miagolare di un gatto.
- Guardi, padre, si dice Dominus vobiscum, e non Dòumenas voubaiscaum o voubèscaum... Agnus Dei e non Eignas o Eighnas Dìai.
il gesuita è uomo di vasta cultura, conosce a fondo grammatica e sintassi. Tuttavia, prende perfino qualche appunto perché sa che da noi il latino è rimasto vivo nella nostra Chiesa dall'epoca imperiale romana fino ai giorni nostri ma ciò che imbroglia tutta la faccenda è il modo arbitrario - ormai regola - con cui gli anglosassoni usano l'alfabeto latino.

I Romani sono stati in Britannia per trecento anni, hanno portato un alfabeto con il quale si può scrivere tutto. Il 60% delle parole inglesi ha ancora etimologia latina... chi ha rovinato la scrittura sono state le invasioni barbariche degli Juti, dei Sassoni, dei Normanni... La cultura limitata dei primi monaci e dei clerici vaganti ha fatto il resto... oggi, nella lingua inglese, i gruppi di consonanti e di vocali non sono indicatori di una pronuncia, sono piuttosto ideogrammi per indicare singole parole... lo afferma perfino a Bernard Shaw in un suo articolo assai arguto.

Continuiamo a discutere fino a notte inoltrata, non senza andare prima a cena al vagone ristorante: un orrendo piatto di pollo ai peperoni gabellato come specialità spagnola. Andiamo a riposare. Nel lungo percorso verso sud, abbiamo attraversato il New Jersey, il Maryland e ora siamo in Virginia: grandi città, piccoli centri agricoli, fattorie isolate, belle residenze, casolari di legno squallidi e cadenti come quelli descritti da Steinbeck. Di buon mattino mi affaccio e guardo il panorama: che bella giornata! Mi sfilano davanti i bei paesaggi della Carolina del Nord e del Sud, ed infine della Georgia: fiumi larghi, grandi boschi, vasti prati, case bianche che spiccano sul verde...

Arriviamo ad Atlanta. Devo scendere e cambiare treno. Il padre gesuita prosegue e mi lascia l'indirizzo: mi prega caldamente di andare a fargli visita al suo convento, a New Orleans. Lo ringrazio, lo saluto e  lo vedo proseguire.

Davanti alla stazione c'è una grande piazza, come quella che si vede nel film "Via col vento" tutta piena di feriti. Ma l'aspetto è mutato perché la città è tutta nuova come l'avessero ricostruita ieri. Purtroppo manca il tempo per visitarla. Arriva il mio treno e proseguo per Columbus, dove giungo nel pomeriggio inoltrato. So che qualcuno deve venire a prendermi, quindi vado nella sala di attesa che trovo piena di negri. Questi mi fanno gentilmente notare che la sala dei bianchi e dall'altra parte. Ringrazio e vado, ma solo uscendo mi rendo conto di un cartello indicante "coloured people only", solo per gente di colore. Non lo avevo letto!

Arriva un automezzo militare che fa la spola tra Fort Benning e la stazione.

Salgo e giungo destinazione, dove non ci sono distinzioni di razza. Siamo assieme bianchi, neri, gialli, meticci e perfino indiani pellerossa. Due di questi ultimi, nelle parate della seconda divisione paracadutisti "Indianhead" (testa di pellerossa) sfilano davanti a tutti nel costume tradizionale dei Sioux, e come ci tengono!

Il corso comincia subito, e senza tanti complimenti, più impegnativo del previsto. Faccio subito amicizia con i colleghi americani, i quali mi introducono nelle loro famiglie e mi fanno conoscere i bambini. Ogni domenica mattina queste deliziose creature vengono a curiosare nella mia camera, aprono i cassetti che trovano pieni di frutta e ripartono contenti. Essi, a casa, vengono rimpinzati di dolci; ma non vedono quasi mai frutta fresca, di cui sono ghiottissimi, e sanno che da me si trova sempre. I padri che li accompagnano non disdegnano un  assaggio di whisky, e ripartono contenti pure loro. 

Fra i non americani, oltre a me, un inglese, un austriaco, quattro giapponesi, cinque indonesiani e due  birmani. Negli studi, primeggia un giapponese: piccolo, minuto, intelligentissimo. Quello è una calcolatrice! Mente pronta e memoria prodigiosa. Mai visto un simile fenomeno! È uno dei superstiti di Hiroshima: l'uniforme bianca lo salvò dalla vampa di luce e di calore, le bretelle nere gli rimasero stampate sulla pelle. Soffre di leucemia, sa che avrà vita breve e trascorre lunghe ore in meditazione.

 

Giacomo Ferrera