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Missione in Turchia (1965) - di Giacomo Ferrera

 

 Il disegno che si trova

in questa pagina è

stato eseguito dall'autore

e rielaborato da

 Lucia Maria Izzo

 

 

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Capitolo XII - Da Istanbul a Palmanova

Domenica 5 settembre

I
l capitano carrista dice: "col cavolo che le linee aeree turche mi fregano ancora!"
Si fa consegnare i nostri biglietti, va alla Panamerican e cambia linea. Partiamo alle 11.45 e dopo un'ora siamo a Roma.

Lunedì 6 settembre

A Roma, dal Ministero che difende l'esercito. Restituisco passaporti, riferisco, do resoconti e prometto relazione completa. Salto sulla Freccia della Laguna, arrivo a casa il 7 settembre e cerco di togliermi di dosso la puzza di caprone che mi sto ancora portando dietro.

Mercoledì 8 settembre

A Palmanueva-les-Bains. Oggi storico anniversario della più nefasta giornata della storia d'Italia, da celebrare a perenne memoria. Trovo il mio tavolo ingombro di pratiche arretrate e il personale che mi guarda con occhi imploranti. E va bene! Rimbocchiamoci le maniche e vediamo anche qui di salvare l'Italia. Dopo qualche giorno, il carabiniere di servizio mi dice di scendere: è arrivata, come previsto negli scambi concordati, la missione degli ufficiali turchi, i quali si guardano attorno e appaiono lieti e contenti di essere qui. E lo credo bene, considerato da dove provengono. Lì ricevo con calore.
- Ma non ci siamo già conosciuti a Kars, ad Erzurum, a Trebisonda, a Sarakamis? com'è piccolo il mondo! Bene arrivati! Avverto subito i comandi ai quali siete destinati.
- Mi raccomando: riceveteli bene! Per la lingua, non hanno problemi, perché parlano italiano, francese, inglese e tedesco. E' gente a posto!

Capitolo XIII - Conclusione

Riesco a stendere una relazione lunga, densa di dati interessanti e di giudizi meditati: viene trasmessa in via gerarchica e allora tutti si meravigliano nel vedere una messe così ricca e così completa. Ma in fin dei conti è il mio mestiere…

Concludo con le mie proposte: quel popolo così fiero e così sicuro di sé deve essere aiutato e sostenuto, perché rappresenta il bastione meridionale che ci difende dall'invadenza sovietica e dal fanatismo degli arabi. Quella gente chiede solo contatti, comprensione, tecnologia, perché si sente tecnicamente e culturalmente arretrata rispetto all'Europa occidentale, che cerca di imitare e che ammira con invidia. Per quanto concerne il pericolo d'invasione dal Caucaso, nessuna preoccupazione: oltre il confine orientale turco vivono decine di milioni di Georgiani, di Turcomanni, di Tartari, di Azerbaijani… Tutta gente che parla il turco, che morde il freno e che mal sopporta il giogo sovietico. In caso di invasione da est, nelle retrovie dell'attaccante succederà il finimondo; perciò la Turchia deve essere aiutata e sostenuta.

Questo scrivevo nella calda estate del 1965. Mi hanno ascoltato? I militari sì, e subito, ma i politici - sempre loro - hanno preferito aiutare e sostenere tirannelli africani e mestatori arabi, con quei giochi di politica levantina che Ankara ha rigettato con disgusto fin dai tempi di Kemal Ataturk, l'uomo che nacque, visse e morì nel tempo giusto per dare alla sua patria il meglio di se stesso.

A me restano i ricordi di allora:

- i bambini biondi e rosei che sguazzavano giulivi nel liquame delle stalle;
- gli scolaretti poveri e cenciosi che uscivano da una misera scuola in silenzio e in punta di piedi per non disturbare le cicogne alla cova in un nido vicino, come in Italia;
- La gente del popolo che salutava con lo slancio i suoi soldati in marcia o in transito, come in Italia;
- i capi di quei miseri villaggi che ci fermavano con un gesto di civiltà antica per salutarci e per offrirci una tazza di tè o di caffè alla turca;
- il pastore errante dell'Asia, come figura uscita dall'antico testamento;
- Le colline da cui partì l'urlo glorioso "thàlassa, thàlassa"  dei 10.000 di Senofonte che nel mare vedevano finalmente la salvezza;
- Le strade battute per millenni da carovane, da apostoli, da missionari, guerrieri, da profeti, da fanatici;
- I ponti costruiti dai romani e le tracce dei loro accampamenti;
- Le città morte e le antiche rovine di civiltà sepolte;
- Le caverne dalle quali la civiltà mediterranea mosse i primi passi.

Porto con me il ricordo di quei bravi soldati che accettavano di buon grado una disciplina di ferro, perché l'esercito era considerato una immensa scuola per imparare a leggere, a scrivere, a coltivare i campi, a praticare un mestiere, con tanto di insegnanti per ogni attività in libera uscita i militari con quelle uniformi lise, ricucite e rattoppate, passate da una classe di leva all'altra, apparivano sciatti e dimessi; ma quando erano nei ranghi facevano corpo unico con l'arma individuale, si sentivano parte viva di un complesso di forze organico e poderoso e acquisiscano una fierezza sorprendente. L'elmo, di foggia germanica, faceva il resto. Quelli sono, come sempre, combattenti duri, tenaci e temibili.
Laggiù, ai confini con l'URSS, con l'Iran, con l'Iraq e con la Siria quei soldati costituiscono le possenti guarnigioni capaci di tenere a bada quei vicini ingombranti e pericolosi: conducono una vita solitaria, isolata, distaccata dal mondo, proprio come quella dei soldati che presidiavano la fortezza Bastiani di cui al bel romanzo Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati.
I militari dislocati laggiù, davanti alle steppe dell'Asia, si sacrificano anche per noi, per la civiltà occidentale in cui credono e alla quale si affidano.

Giacomo Ferrera