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Neph Tah

L’arrivo della nuova fornitura di papiro era sempre stato un momento emozionante per lei. Haksheksut, il mastro papiraio, arrivava la mattina presto e deponeva i rotoli freschi e puliti sul grosso tavolo dello studio di suo padre; poi si recava nel vestibolo, dove gli sarebbero stati pagati cinquanta pezzi d’oro e gli sarebbe stata offerta una coppa di birra con qualche dolcetto al miele. Avrebbe trascorso una mezz’ora con suo padre, a parlare della necessità di rinnovare le vasche per la macerazione o a disquisire delle nuove tecniche per accelerare il processo di essiccazione… poi sarebbero tornati entrambi nello studio a esaminare la merce e a stendere i piani di lavoro per gli scribi. Ma a lei mezz’ora bastava. Bastava per avvicinarsi a quella materia incantata, per toccarla sentendone tra le mani il fruscio morbido e crepitante, per avvertire nel naso quell’odore muschiato come di canfora, tipico delle resine della colla. Come era diverso, quell’odore, dal puzzo delle vasche di macerazione! Quale meravigliosa magia trasformava quelle piante insignificanti in una cosa così  straordinaria, un foglio bianco che sapeva di libertà e che avrebbe conservato le parole e le immagini come in uno scrigno! Come le sarebbe piaciuto essere un uomo, uno scriba, e avere il controllo della carta! E in effetti lei, unica forse tra le donne d’Egitto, sapeva scrivere. Qualche anno prima, quando era più piccola, suo padre per gioco le aveva insegnato a scribacchiare il suo nome su un vecchio rotolo di papiro di scarto: Neph Tah, figlia del gran sovrintendente degli scribi del faraone. Neph Tah. Quelle figurine stilizzate che componevano le lettere del suo nome le si erano impresse negli occhi e materializzate nelle mani: le aveva poi copiate, scritte e riscritte un numero infinito di volte, su tutti i frustuli che i dipendenti di suo padre buttavano via. Avrebbe saputo tracciarle nel buio e scriverle a memoria sulla sabbia fine delle rive del Nilo, anche senza dover più intingere lo stilo nella feccia dell’inchiostro avanzato ai lavoranti. Ben presto però il suo nome non le era più bastato: tutto, voleva conoscere tutto, studiare, scrivere, disegnare, creare. Ma nemmeno a una nobile figlia del Nilo era consentito accostarsi ai sacri segreti della scrittura, riservati solo agli uomini dell’alta classe degli scribi, e già suo padre, vedendo il suo interesse, si era pentito di averle insegnato quei pochi segni che servivano per un nome, Neph Tah. Solo il vecchio Kermat, ormai quasi cieco, che si fermava fin dopo il tramonto nello studio a terminare il lavoro, si era mostrato disposto a insegnarle… non aveva nulla da perdere, Kermat… era solo, e lei gli ricordava tanto quella figlia che aveva perduto pochi anni prima. Con la scusa di riassettare lo studio, lei rimaneva accanto a lui e imparava, e quasi ogni sera riusciva a sottrarre un piccolo rotolo di papiro dalle scorte del padre.
Il giorno in cui l’avevano scoperta era stato il più brutto della sua vita. Era stata una domestica, che seguendo una macchia d’inchiostro rimasta sotto un sandalo aveva aperto il baule della sua camera mentre lei si trovava fuori. Sotto i vestiti, rotoli e rotoli di papiri, coperti da una scrittura precisa, regolare, fittissima e minuta. Storie. Storie di soprusi, di violenze, di stupri… storie che rivelavano il marcio della Casa del Sole. Storie in cui il faraone non compariva come un dio, ma come un uomo senza scrupoli, sanguinario e crudele. E soprattutto storie di donne, offese, umiliate, usate e uccise. La condanna era scattata immediata, per lei e per la sua famiglia. Suo padre aveva perso il posto di gran sovrintendente degli scribi del re, suo fratello era stato venduto come schiavo ai conservatori di cadaveri. Per lei, morte. Un grande fuoco aveva divorato i suoi rotoli mentre il suo corpo veniva inchiodato nudo nel deserto e lasciato in balia dei serpenti, degli scorpioni e degli avvoltoi. Era stato suo fratello, qualche giorno dopo, a trafugare il cadavere e a provvedere a una sommaria mummificazione clandestina, semplice e affrettata, senza quell’apparato che sarebbe spettato alla nobile figlia del primo degli scribi del faraone.
Il viaggio nel Regno Oscuro era durato un tempo che le era parso infinito, finché in un raggio di sole aveva visto degli uomini vestiti in modo strano, che aspiravano aria da un tubicino bianco e fumante, lanciavano grida di stupore e parlavano una lingua piena di vocali, che lei non capiva.

 

La vecchia mummia sospirò. Si trovava in quella teca di cristallo climatizzata da diversi anni, da quando quegli uomini l’avevano affidata alle cure del museo. Faceva un po’ freddo, ma la trattavano bene e la rispettavano. Si era ormai abituata ai visitatori che le puntavano contro delle scatolette nere o alle folle di studenti vocianti che si toglievano svogliatamente un filo dalle orecchie per ascoltare le spiegazioni della persona adulta che li accompagnava. Se faceva attenzione, riusciva perfino a capire che cosa dicevano. Ma non le interessava. Accanto a lei, nella teca, c’era una targa: “Egitto – III millennio a.C. – Neph Tah - mummia di soggetto giovane – femmina”. E c’era il frammento di papiro su cui lei, tanti, tantissimi anni prima, aveva scritto con mano ancora incerta il suo nome. Suo fratello era riuscito a salvarlo dalla distruzione e glielo aveva infilato sotto le bende. Un nome e un mistero per tutti, ma non per lei.
- Deve essere stata una ragazza molto amata, morta improvvisamente e mummificata in fretta – disse il giovane archeologo guardando per l’ennesima volta il pezzetto di papiro – il suo fidanzato deve averle infilato questo frammento sotto le bende per lasciarle un ricordo, il nome che lui aveva scritto per lei, perché gli dèi dei morti la riconoscessero leggendolo.
- Secondo me quel nome se l’è scritto da sé – ribattè la studentessa che era con lui – non vedo perché noi donne dobbiamo essere sempre considerate le ignoranti croniche della storia.
Da sotto le bende consunte, la vecchia mummia sorrise.

 

Paola Lerza


 

 

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