ex cathedra

Vita nella classe, classe nella vita
Divagazioni sulle potenzialità di un chiasmo

Sono venuti in questi giorni a trovarci a scuola molti dei nostri “ex”. Non c’è che dire: fa piacere a un insegnante rivedere nella vita quelli che erano stati i suoi ragazzi nella classe, vedere che lavorano, che fanno l’università, che comunque se la cavano bene. Anche quelli che a scuola stentavano, anche quelli sui quali non scommettevamo troppo… “Ho un colloquio di lavoro, ho preso 28, domani ho un compitino, ho una nuova ragazza…” E’ bello, tutto sommato, che questi ragazzi sentano il bisogno di venircele a dire, certe cose: nessuno li obbliga, eppure a ogni piccolo – o grande – successo eccoli lì, a raccontare la loro vita a quelli che un tempo erano i loro “carcerieri”… dovete scusarci, ma i momenti di gioia di un insegnante sono anche questi. Ho sempre detto ai miei alunni che la cultura è quello che resta veramente, quello che forma l’uomo e che non si cancella nemmeno dopo che il tempo avrà cancellato le nozioni. Ora mi domando se la stessa importanza potranno averla i ricordi di scuola, anche quando non ci saranno più i luoghi e le persone. Che cosa resta di noi ai nostri ragazzi? Chi saremo noi per loro un domani? Persone? Numeri? Nulla? Lasceremo in loro una traccia? O il tempo della scuola verrà travolto dal tempo della vita? Beh, vedendo i nostri “ex” devo dire che quello che facciamo assume ai miei occhi più senso, e la dimensione quotidiana e microscopica della classe si dilata, assume le proporzioni di un macrocosmo, di un vero banco di prova per la vita.
Ma ci sono anche i momenti di delusione e di sconforto. Avevo un ragazzo, una volta, non è passato neppure troppo tempo. Studiava poco, non reggeva il ritmo degli studi liceali. Di latino, poi, non sapeva quasi nulla. Una volta c’era compito in classe, versione di latino. Fece l’estroso, sfruttando una capacità che certo non gli mancava: cercò sul vocabolario “compito di latino” e sull’intestazione del foglio protocollo scrisse “PENSUM LATINI”, in stampatello calligrafico. Credo che fossero le uniche parole quasi giuste del saggio, per il resto la versione era un delirio. Gli diedi tre, e facemmo un po’ di sarcasmo sul “PENSUM”. Ma tre gli restava; poi fu bocciato, e l’anno dopo si ritirò. Non si è più fatto vedere, ma ho saputo che ha preso una cattiva strada, che il suo fallimento nella classe si sta trasformando in un fallimento nella vita. E’ qui che mi vengono i dubbi, i ripensamenti, le crisi: che cosa ho fatto per lui? Che cosa ha fatto la scuola? E che cosa ne farà la vita? Forse non potevamo fare altro, forse abbiamo semplicemente fatto il nostro dovere, tutti quanti. Ma è il risultato che mi sconcerta. E adesso, sentendo parlare di sregolatezze, di sbandamenti, di scelte pericolose…beh, devo dire che preferirei vederlo ancora nel banco della mia classe, a disturbare le mie lezioni, a prendere tre, a scrivere “PENSUM LATINI” su un foglio protocollo, sbagliando tutto. Nella classe, ma non nella vita.

Paola Lerza