ex cathedra

Quella volta dei libri sul tetto

Non ricordo se fosse la mia prima maturità: è possibile, ma è passato troppo tempo. Erano gli anni ’80. Ero entrata in ruolo da poco, ero giovane e piena di entusiasmo. La nomina a commissario esterno di italiano per gli esami in uno dei licei più prestigiosi della mia città mi aveva riempito di soddisfazione e di voglia di far bene. E mi faceva sentire importante. Quelli erano ancora tempi in cui le commissioni erano Commissioni, e i commissari erano i Signori Commissari. Mica bruscolini. Gli studenti ci guardavano con un misto di deferenza, panico e curiosità, dopo aver cercato tanto freneticamente quanto inutilmente informazioni su di noi (internet non esisteva ancora, e non c’erano nemmeno i cellulari…); i bidelli ci portavano il caffè con una premura che faceva quasi tenerezza, come se volessero ingraziarsi, per i loro ragazzi, quei professori venuti da lontano. Eh sì, perché allora le commissioni venivano davvero da lontano, almeno per la maggior parte: da nord a sud, da est a ovest, la penisola era percorsa in lungo e in largo da docenti in trasferta… chi tornava al paese, chi sperava nell’assegnazione in una località balneare, chi approfittava del viaggio e del soggiorno pagati per andare a trovare gli amici… Essere nominati nella propria città era abbastanza difficile; a me toccò, quell’anno, e ne fui felice.

Ancora più felice fui quando seppi chi era il membro interno della commissione alla quale ero stata assegnata: un mio vecchio amico, un compagno di università con il quale avevo condiviso in passato momenti di studio e di svago. Una persona seria e preparata, forse addirittura fin troppo seria e fin troppo preparata, con quel suo fare così solenne e cerimonioso, con quella sua smania di perfezione per cui tutto doveva essere a posto, corretto, preciso, puntuale, impeccabile, superlativo … ed era anche piuttosto permaloso, se qualcosa per caso osava andare diversamente da come lui l’aveva pensata. Rassicurante, però, per me alle prime armi, come io lo fui per lui, unica presenza nota in un gruppo di sconosciuti “membri esterni”, spesso etichettati come nemici.

- Potrei avere i libri di testo? – chiesi al mio collega-amico subito dopo la riunione di insediamento della commissione.

Al che lui, premurosissimo, cortesissimo, gentilissimo, ossequiosissimo, a colpi di “certamente, immediatamente, sicuramente, al più presto, senza dubbio, quanto prima…” eccetera, corse a prelevare dal suo cassetto (ordinatissimo, pulitissimo, impeccabile… altro che il mio che pareva sempre la tana di un lupo!!!) i quattro tomi della Storia della Letteratura + Antologia adottate e scelte da lui medesimo quali inoppugnabilmente le migliori all’interno dell’ampia rosa di offerte proposte dalle varie Case Editrici,… sic et simpliciter, hic et nunc, amen. Insomma, a farla breve, con molto sussiego e compiacimento per la qualità eccelsa dell’opera, con lodi sperticate alla sua completezza e fruibilità, con una solennità quasi pari a quella con cui il papa posò la corona ferrea sulla testa di Carlo Magno, ebbi tra le mani quelli che sarebbero dovuti essere i miei strumenti di lavoro per i successivi 20-25 giorni. Non potevo certo lasciarli a scuola: me li sarei portati a casa, avanti e indietro, nonostante il peso non indifferente, e li avrei sfogliati a dovere, per appuntarmi le domande da fare ai candidati, in modo da fare bella figura e dimostrarmi professionale.

Possedevo, a quei tempi, una mitica Cinquecento color mattone, con il tettuccio apribile e un volantino sportivo del diametro di circa 30 centimetri, chiamata confidenzialmente “Geppetta”, mio fidato mezzo di locomozione per gli spostamenti casa-scuola e ritorno. Quel giorno incominciò a piovere. Erano i primi di luglio e pioveva, venne giù un acquazzone estivo violentissimo, di quelli che durano poco ma bagnano un sacco. Mi beccò per strada, mentre arrancavo verso la Geppetta con il mio malloppo di volumi sotto il braccio. Cominciai a correre maldestramente sui tacchi a spillo dei sandaletti estivi, con la gonna a tubino che mi impediva la falcata. Quando raggiunsi la macchina grondavo acqua dappertutto. Ovviamente le chiavi nuotavano chissà dove nel mare magnum della mia borsa, e per cercarle meglio con le mani libere appoggiai un attimo i preziosi libri sul tetto. Le trovai, aprii la portiera, salii finalmente all’asciutto, misi in moto e partii. Fu solo dopo varie curve e saliscendi per le vie della città che con orrore e disperazione mi ricordai dei libri abbandonati sul tetto dell’auto. Panico totale. Frenai bruscamente, aspettandomi di vedermeli cadere sul cofano fradici di pioggia. Nulla. Allora accostai e scesi, mentre la pioggia andava già diradandosi. Nulla. Dei libri, nessuna traccia. Panico ancora più totale. Che fare? La cosa più sensata mi parve quella di ritornare indietro, lentamente, guardando sul ciglio della strada, nelle pozzanghere, per vedere se mai fossero caduti da qualche parte, ed eventualmente cercare di recuperarli. E già mi immaginavo la scena, tutto il pomeriggio e la sera col phon in mano ad asciugare le creature e a tentare di cancellare in qualche modo le tracce della disavventura. Nulla. Non trovai nulla, né lungo la strada, né sui marciapiedi… nulla. I libri sembravano dissolti nel nulla. E intanto non potevo fare a meno di ridere da sola, pensando alle facce dei passanti che avevano visto viaggiare una Cinquecento con una pila di grossi volumi sul tetto. Ma il vero problema era: come dirlo al mio puntigliosissimo collega? Come sperare di avere ancora la sua stima, dopo un simile gesto di incuria? Altro panico. Ma non mi restava altro da fare che affrontarlo, il giorno dopo, e raccontargli candidamente l’accaduto.

Per fortuna le cose andarono molto meglio del previsto: sarà stato il candore con  cui riferii le cose, o forse la mia evidente buona fede, o forse il ruolo che rivestivo in quella circostanza, o forse la nostra antica amicizia… fatto sta che, contrariamente alle mie aspettative, lui si dimostrò un gentiluomo, prese la cosa in ridere e non le diede troppo peso. Tirai un sospiro di sollievo, ma da quel giorno almeno per vari mesi guardai sempre che il tetto della macchina fosse sgombro, prima di mettere in moto e partire.

E fu una maturità divertente, una delle più rilassanti che io ricordi.

 

Paola Lerza