ex cathedra

Giuseppe


Avevo voglia di imparare cose nuove e di fare. Già, voglia di fare. Presuntuosamente.
E fu così che conobbi Giuseppe. Aveva dodici anni e viveva in casa-famiglia. La madre era morta, aveva due sorelle sposate, al padre era stata tolta la patria potestà. I soliti squallidi, turpi motivi, bisbigliate a labbra strette, sottovoce, distogliendo lo sguardo. Giuseppe fu affidato ad una struttura sociale.
Era basso e magro, per la sua età. Magro da far paura. Brutto, lineamenti irregolari, il naso schiacciato, la fronte sfuggente. Carnagione olivastra, quasi sporca e una peluria scura e sottile sul viso, sulle mani.
Brutto sporco peloso.
Grandi occhi neri, liquidi, mi fissavano. Timidi ma fermi. Teneri ma non dimessi. Fieri.
Quando lo incontrai, dopo aver parlato con la sua insegnante di sostegno e aver conosciuto la sua storia, avrei voluto volar via, fuggire, scomparire, sprofondare, dissolvermi. Non esserci.
Imbarazzo, disagio, vergogna.
Mi vergognavo in nome del mondo.
Pena, rabbia, impotenza, tenerezza.
Avrei voluto portarlo via con me, inventargli una famiglia, inventargli una vita diversa.
E ogni volta che entravo a scuola per lavorare con lui, la stessa devastante sensazione.
E ogni volta lo trovavo lì, pronto, con quelle mani piccole e screpolate, le unghie sporche e spezzate, il grembiule nero, logoro e troppo grande per le sue spalle magre, da uccellino non cresciuto.
E mi sorrideva, lo sguardo da cagnolino bastonato ma fiero di tenersi in piedi.
E ogni volta il desiderio di fuggire da quella disperata impotenza. Il sogno folle di compiere una magia impossibile, un miracolo, un incantesimo.
Poi il corso finì. Scrissi diligentemente la relazione che mi veniva chiesta e non andai più a scuola.
Incontravo a volte Giuseppe per strada. Cresceva in età ma poco in altezza. Il viso era sempre quello, identico lo sguardo.
Ci salutavamo, io imbarazzata, lui con il solito sorriso mansueto e privo di quel rancore, di quella rabbia, che al suo posto io avrei avuto. Al suo posto avrei dato fuoco al mondo.
Gli lasciavo qualcosa per un gelato, per le sigarette, per… No, non per placare la coscienza, questo, no, mai, non l’ho mai pensato. Neanche scavando con le mani e con la ragione nelle intenzioni più recondite e nascoste.
Così, perché sapevo che soldi in tasca ne giravano pochi e non mi sembrava giusto.
Poi non lo incontrai più. Un giorno Rita, un’assistente sociale, mi disse della sua morte.
Gelo. Solo gelo. Non dissi nulla e non ne parlai più con nessuno. Il ricordo mai sfumato, il gelo identico, ogni volta che… Ne parlo ora e la sensazione è la stessa. Non so darle parole, il cuore è di ghiaccio ancor più di allora. Maturità e maternità, forse, hanno portato maggior consapevolezza e freddo.
A quanti Giuseppe devo le scuse?
Con quanti Giuseppe dobbiamo scusarci? In nome del mondo e anch’io sono parte del mondo.
Scusaci Giuseppe, che hai chiuso gli occhi senza una mamma che ti tenesse la mano, senza una mano che ti accarezzasse il viso. Scusami per quella carezza trattenuta e mai fatta. Scusami almeno per questo.
 

Maria Cristina Rosa