ex cathedra

In Kosovo ci sono più stelle

Questo racconto è vero e non lo è.
Negli ultimi anni ho avuto in classe alcuni bambini kossovari: i primi erano profughi di guerra, ora ci sono i fratelli minori, nati qui o arrivati piccolissimi.
Ho messo insieme i fatti che questi bambini mi hanno narrato, quasi sempre mentre eravamo soli, durante l’attività alternativa alla religione. Spesso ci hanno impiegato anni per riuscire a parlare di quanto era loro accaduto.
Ho riferito i diversi racconti a una sola immaginaria bambina, ma ogni singola parola è vera.
Mi chiamo Diellza e sono kossovara. Veramente sui miei documenti è scritto: nata in Serbia. Ma mio padre ha voluto che sulla scheda scolastica ci scrivessero “Kosovo”. La segretaria ha obiettato: -Il Kosovo non è uno stato indipendente…- ma alla fine ha ceduto. Si dice Kòsovo, a proposito, solo i tg italiani non lo sanno, basterebbe chiederlo a noi.
Papà non era con noi quando è scoppiata la guerra, era qui in Italia a lavorare. Io ero ancora piccola, ma ricordo tutto. Eravamo entrati da pochi mesi nella nuova casa che i miei zii avevano costruito con i soldi che mandava papà.
Mio fratello andava a scuola, ma era una scuola clandestina: i serbi avevano chiuso le scuole dove si parlava la nostra lingua, eravamo costretti a riunirci nelle case e a tassarci per pagare l’insegnante.
Quando i serbi hanno cominciato a sparare, la mamma ci ha vestito in fretta, infilandoci tanti indumenti uno sopra l’altro. Mentre i soldati rompevano la porta e sparavano forte, noi siamo fuggiti dalla finestra sul retro. Ci siamo rifugiati a casa di uno zio, ma dopo pochi giorni anche lì sono arrivati i soldati. Casa nostra era stata completamente distrutta. Lo zio ci ha caricati sul suo trattore e ci ha portato nei boschi. Dopo qualche giorno mio cugino ci ha accompagnati fino al confine con l’Albania, i soldati ci hanno fermato e gridavano: - Buttate tutto, altrimenti vi uccidiamo o vi portiamo in prigione!- Io avevo tantissima paura. Hanno calpestato le fotografie di famiglia che la mamma portava con sé. La mamma si è messa a piangere. Per fortuna abbiamo salvato qualche soldo che la mamma aveva nascosto nelle mie calze, sperando che i bambini non venissero perquisiti.
In Albania siamo stati ospitati in una casa, dove abbiamo finalmente potuto parlare al telefono con papà. Lui ci ha detto: -Venite in Italia!-
Io ero piccola, non so come abbia fatto la mamma, quanto abbia pagato, ma alcuni giorni dopo siamo riusciti ad imbarcarci. Io non avevo mai visto il mare e avevo tanta paura. Era notte, eravamo quaranta persone, ventidue bambini e diciotto adulti, in un gommone che saltava sulle onde. Non so dire quanto è durata la traversata, ma alla fine siamo arrivati su una spiaggia vicino a Brindisi. Con il cellulare di un passeggero la mamma ha chiamato papà. Il giorno dopo è venuto a prenderci. Quando l’ho visto non l’ho riconosciuto, era tantissimo che non lo vedevo.
I primi tempi, in Italia, piangevo sempre, perché pensavo alle mie bambole che avevo lasciato in Kosovo. Andavo alla scuola materna, ma non capivo la lingua, non giocavo con nessuno. Adesso ho imparato, ho tanti amici, parlo bene l’italiano. Un giorno la maestra mi ha chiesto: - Diellza, preferisci l’Italia o il Kosovo?- Io non sapevo cosa rispondere…L’Italia è bella, si possono comprare tante cose, e poi nessuno spara. Ma, non so perché, l’unica cosa che mi è venuta in mente di dire è stata: - In Kosovo ci sono più stelle.- Dopo ho imparato che le stelle sono uguali dappertutto e che in Italia ci sono solo più luci accese, ma la maestra quella volta non ha spiegato niente, ha sorriso e basta.
Ho sorriso... e basta.


Daniela Borsato