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Da tempo vado inseguendo libri che parlano di donne: figure femminili della storia, della letteratura, dell’arte, spesso famose, a volte quasi o del tutto sconosciute.
Questo romanzo non mi ha delusa: vi si respirano la curiosità e la passione con le quali, per anni, Alexandra Lapierre ha seguito le tracce, spesso molto labili, della vita di Artemisia Gentileschi, pittrice. La incontriamo bambina, nella bottega del padre Orazio, il suo maestro: il pennello in mano, lo sguardo fiero, le forme già prepotenti. Ne seguiamo le passioni, gli amori, i drammi: la morte della madre quando lei è ancora adolescente, la violenza subita da un amico del padre e il successivo processo, che si concluderà con la condanna dell’uomo, la morte di due figli. Su tutto, il rapporto ambiguo, morboso, sofferto con il padre: di volta in volta complici e rivali, fino alla fine si cercano e si respingono. Artemisia, la puttana, la figlia ingrata, l’allieva che rischia di sottrargli la fama, la donna che gli sfugge e lo intriga… Artemisia, ostinata e incrollabile, riuscirà a spezzare quella catena e ad affermare la sua indipendenza di donna e d’artista.
La ponderosa mole di documentazione storica che accompagna il romanzo non appesantisce ma semmai dà spessore alla storia, che sulle orme della pittrice ci fa rivivere il clima delle grandi corti secentesche italiane ed europee.

(Monica Anelli)

Il libro mi è capitato solo per caso sottomano ed ho cominciato a leggerlo senza aspettarmi nient’altro che la semplice reminiscenza storica sui lager nazisti, invece è stato a dir poco sconvolgente.
Il racconto ti prende piano piano e ti trasporta nei meandri dell’animo umano, di colui che è passato attraverso l’inferno e ne cerca il perché, vuole scrutare il cuore e la mente di tutti coloro che furono coinvolti da quegli avvenimenti: perché alcuni agirono in certo modo, perché i molti tacquero pur avendo visto, perché la quasi totalità non trovò la forza di ribellarsi, perché …. perché …. perché.
Il testo analizza i vari comportamenti e cerca di capire. Capire è tutto ciò che si vuole adesso che tutto è finito ma che è impossibile dimenticare sia per gli oppressi sia per gli oppressori, capire è l’ultima cosa che resta come finalità di una vita che è stata uccisa e che probabilmente non avrà più un senso.
Sono passati tanti anni da quegli avvenimenti eppure è importante leggere e sapere, perché "... quelli erano uomini come noi, esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi, non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati educati male… tutti avevano subito la terrificante diseducazione imposta dalla società, … e perché quella storia ha coinvolto popoli “civili” e “nessun paese può essere garantito immune da una futura marea di violenza, generata da intolleranza, da libidine di potere, da ragioni economiche, da fanatismo religioso o politico, da attriti razziali”
Il libro comprende anche un carteggio tra Levi e alcuni lettori tedeschi che ci aiuta anche a comprendere la riflessione postuma sui fatti avvenuti.

(Marialuisa Di Paola)

"Amare il proprio lavoro costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra".
Questo è in un certo senso un’opera prima; Levi aveva appena lasciato il lavoro di chimico, che gli aveva salvato la vita nel lager e che aveva esercitato con grande passione finché non si era deciso a fare della scrittura il suo mestiere. Non è casuale che questo romanzo sia dedicato al lavoro, anzi alla passione per il lavoro. Il protagonista, Faussone, ha lasciato il lavoro sicuro alla catena di montaggio, ha rinunciato ad avere una famiglia e se n’è andato per il mondo con la sua “chiave a stella”, a montare gru, ponti sospesi, impianti petroliferi. Racconta le sue avventure con la curiosità e la disponibilità di chi vuole conoscere e imparare, ma con l’orgoglio di chi ama il lavoro ben fatto e ci mette l’anima. Il linguaggio di Faussone è un divertente miscuglio di parole piemontesi, termini tecnici ed espressioni gergali di tutto il mondo. È un libro ricco di allegria e di speranza: in un’epoca storica in cui andava già di moda il rifiuto del lavoro, il protagonista incarna l’uomo convinto che l’impegno, la competenza professionale, la pazienza e la voglia di imparare, siano “la chiave a stella” che raddrizza ogni bullone storto.
"Il piacere di veder crescere la tua creatura, [...] che dopo finita la riguardi e pensi che forse vivrà più a lungo di te, e forse servirà a qualcuno che tu non conosci e che non ti conosce. Magari potrai tornare a guardarla da vecchio, e ti sembra bella, e non importa poi tanto se sembra bella solo a te, e puoi dire a te stesso 'forse un altro non ci sarebbe riuscito'".

(Daniela Borsato)

Approfondimento

La chiave a stella è stato giustamente definito il libro più ottimista che Primo Levi abbia mai scritto; e in effetti non si direbbe davvero che questa storia, così positiva e propositiva, sia uscita dalla stessa penna che scrisse testi drammatici come La tregua, Se questo è un uomo o I sommersi e i salvati, e dalla mano dello stesso uomo che pochi anni dopo si sarebbe suicidato gettandosi dalla tromba delle scale, devastato dall’esperienza vissuta nei campi di sterminio nazisti.
Il libro è centrato sull’incontro di due uomini diversissimi per età e cultura, ma accomunati dalla passione per il proprio lavoro: da una parte l’autore, chimico vicino alla pensione e scrittore per hobby, dall’altra Tino Faussone, giovane montatore di gru, ponti e tralicci, uomo scontroso e solitario, ma con una gran voglia di raccontare e raccontarsi. Un incontro proficuo per entrambi: per il chimico Primo Levi, che avrà materiale in abbondanza per scrivere, e per l’operaio specializzato Faussone, vero direttore d’orchestra degli episodi e narratore instancabile delle sue vicende professionali. I due si conoscono per caso in Russia, dove entrambi si trovano per lavoro, e trascorrono il tempo libero chiacchierando. O meglio, Levi si limita a interloquire e a sollecitare l’amico; racconterà a sua volta solo i due o tre episodi conclusivi. Il vero narratore è Faussone, che espone le sue peripezie di montatore in giro per il mondo, quasi sempre da solo in ambienti ostili, alle prese con il gelo, con le inondazioni, con ogni sorta di condizione avversa e con colleghi difficili, eppure sempre vigile, perfezionista fino al minimo dettaglio, con in mano quella sua chiave a stella che è l’attrezzo-simbolo del suo mestiere. Racconta del suo essere apolide, senza patria, senza radici e senza amori stabili, nonostante le sue uniche parenti, due vecchie zie di Torino, approfittino di ogni suo breve rientro a casa per tentare di appioppargli una moglie.
Ama il suo lavoro, Faussone, tanto da parlarne con toni quasi epici, che fanno sembrare ogni incarico come una sorta di mission impossible, una sfida contro gli imprevisti e le avversità, un’avventura piena di incognite e di suspence. Il suo è un linguaggio immediato, semplice e diretto, che l’autore riesce a rendere con grande maestria, rispettandone la freschezza fatta di modi di dire anche gergali, di luoghi comuni e perfino di varie sgrammaticature. Ma pur con questo linguaggio, anzi forse proprio in grazia di esso, Faussone ha una sua dimensione eroica, conferitagli dalla dedizione, dalla dignità e dalla professionalità con cui affronta il suo lavoro, un lavoro che davvero, così concepito, nobilita e rende liberi. Ecco le parole dell’autore: “il termine “libertà” ha notoriamente molti sensi, ma forse il tipo di libertà più accessibile, più goduto soggettivamente, e più utile al consorzio umano, coincide con l’essere competenti nel proprio lavoro, e quindi nel provare piacere a svolgerlo”.

(Paola Lerza)

 

                                                      

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