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Lo scenario è quello della Roma anni ’50, una città ancora sonnacchiosa e sbigottita nella fase caotica della ricostruzione postbellica, un agglomerato di case e di vie brulicanti di piccola gente alla ricerca di una propria identità. I racconti sono storie di ordinaria follia, spaccati di vita senza fuochi e senza eroi: bottegai, impiegatucci, commessi, spiantati e nullafacenti compongono un popolo multiforme ma ugualmente disorientato e impreparato anche di fronte alla quotidianità della vita. Per tutte queste persone, ciascuna chiusa in un piccolo mondo che spesso non supera gli orizzonti di un quartiere, ciascuna aggrappata alla sua personale vicenda, ogni narrazione assume la dimensione dell’epica, tanto che il libro potrebbe a buon diritto definirsi l’epopea della piccola e piccolissima borghesia italiana del secondo Dopoguerra.
Per quanto l’ambientazione sia quella della capitale, tanti sono gli indizi che rimandano alla mentalità ancora gretta e provinciale dell’ “Italietta”: l’impostazione maschilista e patriarcale della società e della famiglia (la moglie per fare la spesa deve sempre chiedere i soldi al marito; la donna è ancora vista come un misto di pudore, pregiudizi e passione repressa, eccetera), le invidie e le ripicche meschine di vicinato, un fondo di moralismo, di buonismo e di senso di colpa che emerge anche dai pensieri e dalle azioni peggiori.
Lo stile di Moravia, nella tradizione propria del Neorealismo, è asciutto, immediato e senza fronzoli; le narrazioni sono tutte in prima persona e danno l’impressione di un colloquio di ogni personaggio con se stesso piuttosto che con il lettore, quasi in una sorta di bilancio di vita o di presa di coscienza, sempre piuttosto amara, del proprio essere.

(Paola Lerza)

 

A Soreni, luogo immaginario di una Sardegna della metà del secolo scorso, vive Bonaria Urrai, la vecchia sarta del paese, “vedova di un marito che non l’aveva mai sposata”. La donna porta a vivere con sé la piccola Maria, ultima di quattro figli di una famiglia di conoscenti e ne fa così la sua fill’e anima, la sua figlia adottiva ed erede, secondo un’usanza un tempo molto diffusa nell’isola: “Fillus de anima. È così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra”. Tzia Bonaria ama teneramente la bambina alla quale, tuttavia, nasconde per anni un pesante segreto: in certe notti, coperta dal suo scialle nero, la donna scivola veloce nelle vie del paese, bussa, attesa, all’uscio di case nelle quali una vita sta per spegnersi e lei, l’accabadora – dallo spagnolo acabar, finire – dispensa con mano pietosa la dolce morte. Quando, ormai grande, Maria capisce finalmente la sconvolgente verità, abbandona precipitosamente la madre adottiva e la sua terra, ma alla fine sarà costretta a tornare e a fare i conti col proprio destino.
Una Sardegna atavica rivive nella lingua asciutta e al tempo stesso evocativa di Michela Murgia, nel ritratto di una comunità chiusa nella tacita accettazione di rituali e regole non codificati ma da tutti condivisi e nella potenza di un personaggio come la vecchia Tzia Bonaria, moderna Parca dispensatrice di vita e di morte, “ultima madre” (questo in origine il titolo dell’opera voluto dall’autrice, poi cambiato per scelta dell’editore) per tanti moribondi. Il mito dell’accabadora, figura misteriosa dell’immaginario sardo a metà tra leggenda e realtà, resiste al tempo e si riveste di significati nuovi, anche alla luce di recenti fatti di cronaca.
Riflessione sulla vita e sulla morte, sul significato dell’essere figli e madri, sulla potenza e sul potere della figura femminile, questo romanzo incanta grazie all’abile intreccio della trama e al potere allusivo delle parole, che rivestono il racconto di suoni, odori e immagini di una Sardegna arcaica eppure ancora straordinariamente viva.

(Monica Anelli)


“Chirù”, settimo romanzo di Michela Murgia (Premio Campiello 2010 con “Accabadora”), è la storia di un rapporto tra un’attrice di teatro trentottenne, Eleonora (madre, amante, maestra), e Chirù, un adolescente che Eleonora incontra durante una cena. Tra i due scatta una sintonia immediata, i loro conflitti interiori si compensano. Non è la classica storia d’amore, secondo il senso comune. L’autrice tocca un aspetto più nascosto delle relazioni umane: il potere dell’una sull’altro. Chirù si aggrappa a Eleonora, e lei lo accoglie – nonostante la ripromessa di non farlo più in seguito ad esperienze con altri giovani - nel suo insegnamento alla vita e a tentare di essere più di ciò che si è. Un insegnamento che porta inevitabilmente ad una dipendenza di sottofondo, e che la donna vuole interrompere quando l’affiancamento diventa qualcosa di più.
La narrazione verte anche sul passato di Eleonora, una crescita priva di serenità all’interno di una famiglia composta da una madre che conosce poco e da un padre che “ama davvero solo quello che si può calpestare”, fino alle tappe dell’età adulta che hanno l’impronta indelebile di questi vissuti.
A partire dalle vie del centro di Cagliari, la narrazione si sposta – tra vacanze e tour teatrali - a Roma e a Torino, proseguendo per l’innevata Stoccolma e per tornare infine in Italia. Questi spostamenti non sono solo elementi narrativi geografici del tutto casuali, ma silenziosi cambiamenti dei protagonisti: è proprio in un albergo dell’artistica Firenze che Chirù tenta un contatto con Eleonora, manifestandole quell’attaccamento tipico delle storie d’amore, secondo il senso comune. Ma forse è troppo tardi: proprio a Stoccolma Eleonora aveva trovato quello di cui pensava di aver bisogno – un direttore artistico di teatro d’opera più vecchio di lei - allontanando ciò che voleva evitare dall’inizio nel rapporto col ragazzo, fatto di ricercatezza e di riti.
Da una scrittura impeccabile, fluida e scorrevole, e da dialoghi altamente raffinati, Michela Murgia riesce ancora una volta a mostrare con le parole quegli aspetti della vita e della mentalità umana apparentemente scontati, poco manifesti, e ci rende consapevoli di quanto immensamente la cultura di un paese e di una famiglia possano determinarci.
Ciò che più conta, alla fine, è come si esce di scena, e Chirù è uno di quelli che per Eleonora, come mostrano le ultime pagine, è uscito diverso dall’inizio, o forse non ne è uscito mai. E’ certo che simili rapporti, a volte, possono salvare. Come questo libro.

(Chiara Canu)

 

                                                      

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