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Un gustosissimo libricino che contiene uno spaccato di vita di una classe di un liceo romano. Ogni ragazzo ha contribuito con un breve scritto sulla sua vita da studente: il linguaggio è scorrevole, spesso gergale e rende la lettura spassosissima: «Ore otto e ventinove. C’ho la flemma, e devo fa’ un botto de scale pe’ arrivà in quel manicomio di classe che mi ritrovo. Subito mi tocca la materia ‘spreferita’: Latino; e la prof è già in classe prima che suoni la campanella. Mi domando: avrà mica dormito a scuola???»
Ancora più interessante, il fatto che agli scritti degli alunni si alternino, quasi a controcanto, i punti di vista dei loro “proff”: «Un’altra ora in II G. Durante l’intervallo, una collega mi diceva che noi dobbiamo avere un atteggiamento materno con i ragazzi, che han bisogno di sentirsi in famiglia anche a scuola: in fondo potrebbero anche essere figli nostri e dobbiamo comportarci da brave persone. Se è per questo, i miei figli sono assai più grandi di loro, e mi sono sempre aspettata che a scuola trovassero degli insegnanti in gamba, piuttosto che padri, madri o genericamente brave persone».
Un concentrato di sarcasmo e ironia, in cui ognuno di noi, insegnante o ex studente, potrà riconoscersi.

(Elena Papa)


La storia si svolge tra la fine degli anni ‘60 e i giorni nostri, dall’infanzia di Mevlut – protagonista del libro - fino all’età adulta. Trasferitosi a Istanbul con il padre, Mevlut si divide tra la scuola (anche se gli studi non vanno a buon fine) e la vendita di yogurt e boza (“una bevanda leggermente alcolica, densa, profumata, giallognola”) in giro per la città. Il centro del romanzo, però, riguarda un rapimento: precisamente, il rapimento di una sposa sbagliata. Sono gli anni ’70: durante un matrimonio lo sguardo di Mevlut incontra gli occhi di una ragazza, Rayiha, se ne innamora e da quel giorno le scrive numerose lettere d’amore, nel corso di tre lunghi anni. Deve averla, quegli occhi sono un’ossessione, non passa giorno che non ci pensi e l’unico sfogo che ha a disposizione sono le parole che mette in quelle lettere. Così – insieme al cugino Suleyman – organizza il rapimento che finalmente renderà Rayiha sua moglie. Ma, una volta rapita, si accorge solo guardandola in volto che quella non è la donna delle sue lettere. L’errore – o l’inganno - non è nel nome, ma nella persona: Rayiha è “la sorella brutta di Samiha”. Quegli occhi così belli e profondi erano proprio di lei, Samiha. Tuttavia, Mevlut non dice nulla, sposa lo sbaglio e riesce a essere felice di quello che ha. È cosa rara avere una donna al suo fianco dopo averne desiderate tante e mai avute, in una Istanbul difficile, segnata da numerosi vincoli sia politici che culturali. L’autore destreggia un grande gioco di prospettive sulle medesime vicende, facendole vivere in terza persona al protagonista e riservando la prima a tutte le altre figure. Nella sua semplicità, Orhan Pamuk (Premio Nobel per la Letteratura 2006) racconta una storia intensa e bellissima, con un titolo che da solo è tutto: ci sono i sentimenti, le vie, l’abbaiare dei cani di cui Mevlut ha un’inguaribile paura, i cinema che proiettano film porno, donne desiderate e soltanto sognate, il carretto con la boza per le strade fino a tarda notte, un maestro che gli insegna “le intenzioni delle labbra e le intenzioni del cuore”, che possono essere la stessa cosa; ci sono le incomprensioni di un parentado per acquisti di terreni e amori falliti, e una Istanbul che cambia al punto da non sentirsi più se stessi in mezzo alla folla che piano piano inizia ad abitarla. Il tempo sembra trascorrere nel nulla, in un quotidiano che nulla non è. Dal loro matrimonio Mevlut e Rayiha hanno due figlie, la passione li unisce ma a tratti li allontana quando la moglie comincia a seminare forti dubbi sulle lettere ricevute in passato. E Mevlut non si rende subito conto di quanto la sua capacità di amare Rayiha sia stata immensa, nonostante quell’errore che riecheggia tra loro. Se ne accorgerà soltanto dopo la morte di lei, al trascorrere degli anni in sua assenza. Anche se i sentimenti si riaccendono, ciò che è stato grande non ci abbandona. Nonostante Samiha, con la quale si unisce in matrimonio dopo diversi anni, Mevlut si sente ugualmente solo nella sua stranezza, persino nelle strade che lo hanno formato. Anche il suo “Boo-za!” gridato nelle vie buie non è più lo stesso, e non per l’età che avanza. Quello che Mevlut sente dentro sé e vorrebbe dire alla città è tutto nella frase finale del libro, pura e semplice, capace di far arrivare anche a noi la sua nostalgica tristezza.

(Chiara Canu)

   

Ognuno ha le sue fissazioni: una delle mie sono i gialli storici. Questo è il primo di una serie, “Le inchieste di Nicholas Le Floch”, che in Francia è giunta con grande successo al quinto episodio. Al centro, la figura di un giovane investigatore alle prime armi entrato al servizio del luogotenente generale della polizia di Luigi XV e incaricato di risolvere un caso difficile e complesso che mette a repentaglio la sicurezza dello stesso sovrano.
Il romanzo è godibilissimo, grazie a un intrigo ben congegnato e ad una ricostruzione storica accurata. La Parigi del 1761 rivive in tutti i suoi ambienti, dalle più sordide bettole dei sobborghi ai sontuosi palazzi nobiliari; protagonisti e comparse compongono un quadro minuzioso della società francese sul finire dell’Ancien Régime.
Lo stile ricercato ma senza inutili preziosismi e i numerosi riferimenti eruditi conferiscono a quest’opera una indiscutibile eleganza.

(Monica Anelli)

Ancora una volta vi invito a conoscere questa giovanissima scrittrice, le cui opere sono brevi e snelle, più novelle che romanzi, ma dense di umanità e di risvolti psicologici.
È la storia di un amore “folle”, assoluto, come i grandi amori dei romanzi epici, una passione che incatena due opposti e li avvia alla tragedia, una passione cieca in cui tutti gli altri affetti si annullano davanti alla forza primitiva e quasi “bestiale” di un’immensa attrazione fisica, di una vera e propria “fattura” d’amore.
Com’è che una ragazza dell’alta borghesia, moderna Clitemnestra, s’innamora di un bad boy, di un cattivo ragazzo, moderno Agamennone, appartenente al mondo della malavita napoletana? Così, una passione fondata quasi esclusivamente sul sesso e sulla fisicità finisce col permeare tutte le scelte e tutto il mondo di questa ragazza, portandola a sacrificare persino l’amore di madre, ad immolare la propria figlia, come una moderna Ifigenia, sull’altare di una nuova chiesa, rappresentata dal mondo della camorra.

(Gabriella Nasi)

Una giovanissima scrittrice napoletana, interprete della Lingua Italiana dei Segni, ci immerge nell’atmosfera di una Napoli incantata e disillusa, capace di sopravvivere a se stessa, una Napoli "mater" che abbraccia i propri figli e li avvolge con il proprio amore, insegnando loro a lasciarsi andare verso il miracolo della vita.
Sono sei brevi racconti, in cui si mescolano furbizia e ingenuità, dolore e gioia, amore ed odio.
Nel primo racconto, forse un po’ autobiografico, una ragazzina sfugge all’indottrinamento dei genitori pieni di teorie moderne ed intellettuali per rifugiarsi nel mondo semplice e sicuro delle bidelle di scuola, della portinaia, di una commessa madre dell’amica, che le rivelano una realtà "diversa", nello stesso tempo magica e pratica, infarcita di comune buon senso e di superstizioni.
Vi è poi la storia di Guappetella, che, di letto in letto, salirà nei gradini della scala sociale, fino a sentirsi finalmente apostrofare con il termine "signora".
Nel terzo racconto la storia del tradimento di Vera, fatto con tranquilla incoscienza e senza alcun senso di colpa, ci fa pensare ad una sessualità priva di orpelli e tragedie sentimentali, in cui "fare sesso" è semplicemente un’esigenza vitale, come bere un bicchiere d’acqua.
Gli altri tre racconti lanciano uno sguardo sul mondo politico napoletano, sulla commistione di affari e mazzette, malavita ed apparati burocratici: dall’ennesimo concorso-truffa, in cui bisogna rispondere ai quiz, fra cui quello che dà il titolo al libro; al piano regolatore della città in cui il cemento vuole mangiarsi il mare; al mondo della scuola di periferia, in cui non è tanto importante insegnare le varie materie scolastiche, quanto insegnare ad accettare di vivere in un mondo a misura di adulto, in cui nulla è risparmiato ai bambini.
Secondo me è proprio in quest’ultimo racconto, quello della "eterna supplente", innamorata di una donna e che si ritrova "incinta per caso" dopo un incontro casuale, che meglio appaiono lo spirito e la forza della "napoletanità": quello spirito e quella forza che hanno fatto morire e rinascere mille volte Napoli

(Gabriella Nasi)

Ecco la Storia" è l'unione di più storie, alcune inventate, alcune vere.
La scelta di un dittatore fittizio di assumere un sosia s'interseca con i diversi ruoli che lo scrittore assume mentre crea una storia. Un personaggio inventato può lentamente fluire verso una persona reale e viceversa. Questo romanzo è il continuo intrecciarsi di realtà e fantasia. Un dittatore agorafobico si fa rimpiazzare da un sosia, che a sua volta si fa rimpiazzare da un sosia che si fa rimpiazzare da un sosia... è la storia di un autore che racconta la storia di tutti i suoi sosia.
Un gran casino, direte voi.
È quello che hanno detto molti lettori, ma è un romanzo che a me è piaciuto moltissimo forse perché anche la sottoscritta è un gran... Ma no, semplicemente perché Pennac è un grande scrittore, dalla sensibilità e fantasia uniche.
Se non lo avete ancora letto io ve lo consiglio. Mal che vada, potrete prestarlo a qualcuno che lo presterà a qualcuno che lo presterà a....
Il peggio che potrà succedere sarà che parleranno di voi.

(Daniela Parise)

“Sono vent’anni oggi, signore. Quasi un anniversario. Così viene voglia di raccontarlo a qualcuno… Ha un momento? (…)” Comincia così il breve racconto nel quale il dottor Galvan ripercorre con la memoria gli avvenimenti che, molti anni prima, cambiarono radicalmente il suo destino di giovane medico in carriera animato da un’unica idea fissa: avere un biglietto da visita degno della sua ambizione. Una notte, quella notte, mentre è di turno al Pronto Soccorso di un ospedale parigino, tra i tanti casi di routine incappa in un paziente che metterà a dura prova la sua vocazione, le sue capacità nonché la resistenza fisica e nervosa dell’intero nosocomio: i sintomi che l’uomo presenta, infatti, sono i più disparati, ma soprattutto sfuggono ad ogni diagnosi perché mutano in continuazione, in un crescendo di situazioni tragicomiche fino all’inaspettato finale.
Ritroviamo in quest’opera che si fa leggere avidamente alcuni tratti caratteristici della scrittura di Pennac: ritmo frenetico, situazioni surreali, ironia a tratti spietata, malinconia e amarezza… e, come sempre, la riflessione sul destino dell’uomo, impegnato a cercare di mettere ordine in un mondo alla rovescia e in preda al caos.
L’opera ha ispirato un monologo teatrale che ha per protagonista Neri Marcoré.

(Monica Anelli)

È il romanzo della vita.
Soares, uno degli eteronimi (insieme con Alberto Caeiro, Riccardo Reis, Alvaro de Campos) che Pessoa fece muovere nell’ambiente culturale portoghese come personaggi realmente esistenti, scrive un diario autobiografico: riflessioni, meditazioni, appunti, definiti dalla critica “ il più bel diario del nostro secolo”.
Bernardo Soares se ne sta dietro ai vetri “a spiare la vita” e Antonio Tabucchi, autore della prefazione, lo paragona all’ubiquo Erik Brahe del Malte di R. M. Rilke, che con l’occhio sano guarda il mondo dei vivi e con l’occhio fisso guarda il mondo dei morti.
Ed ecco tutta una tavolozza della vita dipinta e presentata a chi ha il dono di leggere quest’opera: l’aria, i colori, la luce, il word-painting di Ruskin, il diario di Keats e le “pitture di parole” di Hopkins.
Ma, come afferma Tabucchi, “c’è sempre un “oltre” in Pessoa” perché, vivendo con lui, “non ci troviamo più nel quadro, ma al di là del quadro”.
Soares è un personaggio nel quale si immedesima con facilità solo chi è portato a vivere e non a lasciarsi vivere, a “rendere anodino il giorno-per-giorno affinché la più piccola cosa sia una distrazione”.
Riflessioni ironiche (la sua figura retorica è la litote), interrogazioni, un “apparente monologo” che ci fa stare a Lisbona (“ la mia consapevolezza della città è, dal di dentro, la consapevolezza di me stesso”) e, precisamente, in Rua dos Douradores, dove si trova l’ufficio di questo “metafisico scrivano” che deve aver “conosciuto da qualche parte il Bartleby di Malville”.
Ma c’è anche qualcos’altro… “Sto scrivendo, è la tarda mattinata domenicale di un’ampia giornata di luce soave in cui, sui tetti della città ininterrotta, l’azzurro sempre inedito del cielo chiude nell’oblio la misteriosa esistenza degli astri. Anche in me è domenica……”.

(Tania Conte)

 

 

Riesce a mantenere la dignità, ma non sa raggiungere l’emancipazione, la Marta Ayala protagonista del romanzo L’esclusa di Luigi Pirandello. Perché una donna che vive in un piccolo centro della Sicilia di inizio ‘900 non può che essere così: vittima dei condizionamenti di una società patriarcale, di una religione oppressiva e di una mentalità piena di pregiudizi e di preclusioni sessiste. La civetteria femminile e il compiacimento del sentirsi corteggiata da un deputato, un uomo che non è suo marito e che le consente di esprimere le sue doti intellettuali, sono fatali per Marta: tacciata automaticamente di un adulterio che non ha commesso, viene ripudiata dal marito e costretta a tornare nella casa paterna. Il padre, sordo a ogni tentativo di dialogo con la figlia e oppresso dal senso del disonore muore di crepacuore, mentre Marta sopporta in un silenzio allibito, ma sempre dignitoso, la compassione rassegnata e i taciti rimproveri che la madre e la sorella le fanno pesare ogni giorno, sia pure solo con lo sguardo.
Noi moderni vorremmo sentirla gridare, questa donna innocente, vorremmo vederla urlare al marito che lei non sa che farsene di un uomo così rigido, ottuso e vincolato a un assurdo senso dell’onore; vorremmo vederla in piazza a sbandierare la sua innocenza, e magari a chiedere solidarietà alle altre donne. Ma quel mondo non è il nostro, e in quel mondo la donna sposata resta pur sempre proprietà del marito, legata a lui da un vincolo religioso e civile.
Non c’è dunque fierezza, ma rassegnazione, nella Marta Ayala che si trasferisce a Palermo a fare la maestra in un collegio per mantenere col suo lavoro la madre e la sorella cadute in miseria dopo la morte del capofamiglia; non c’è più compiacimento, ma quasi sdegno in lei che si vedrà corteggiata da tutti i professori del collegio, come non c’è più divertimento, ma fatalismo nella protagonista che, stavolta sì, cadrà tra le braccia del deputato, commettendo davvero quell’adulterio del quale era stata un tempo accusata. Sarà un caso fortuito – la morte della suocera – a far incontrare Marta con suo marito Rocco, e lui si riprenderà in casa una moglie rassegnata e senza amore, riconoscendole implicitamente, solo allora, quell’innocenza che invece proprio allora lei aveva perduto.
Resterà dunque “esclusa”, questa donna, dalla società “normale”, prima in quanto accusata ingiustamente, ora in quanto reintegrata ma colpevole. Una situazione assurda, paradossale, che prelude agli intrecci successivi della narrativa e del teatro di Pirandello.
Stile sobrio, contenuto, mai spinto agli eccessi verso i quali la letteratura a sfondo erotico ha ormai orientato il gusto moderno.

(Paola Lerza)

“I ricordi sono come le maree. Appaiono all’improvviso… come dal niente… poi ti fanno loro”. Questo l’incipit della prefazione di Andrea Leoncini alla prima opera di Marco Pisano. È questo l’indizio principale – il ricordo, appunto - che introduce alla lettura di una storia vera, ambientata in un paese che, insieme ad altri centri più o meno grossi, costituisce il circondario di Cagliari, il capoluogo sardo, la città meta dei sogni e dei desideri di realizzazione e riscatto, durante i difficili anni della ricostruzione, alla fine della seconda guerra mondiale. Il “Piano di Rinascita della Sardegna” è ancora sulla carta – e tale resterà per molti anni ancora – e l’appena conquistata autonomia regionale a Statuto Speciale muove i primi passi tra problemi e gravi incertezze.
In questo quadro, simile a quella di altre centinaia di famiglie, si sviluppa la storia della vita di “ziu Attilliu” e della sua famiglia costituita dalla moglie Chierina e dai gemelli – is pipìus (i piccoli) – ultimi di dieci figli, nati a distanza di dieci anni dal fratello più giovane. È una vita semplice, quella di ziu Attilliu, che è rappresentato a tutto tondo: una figura paterna, un padre “di una volta”, burbero, severo, pienamente responsabile del benessere dei propri cari, centro e perno del piccolo mondo familiare su cui apparentemente domina incontrastato. È un uomo giusto, ziu Attilliu, schivo e poco propenso a smancerie ed esternazioni sentimentali. Un pudore comune a tanti uomini di allora, che serve a celare un profondo affetto e attaccamento alla moglie e ai figli. Descritto attraverso gli occhi di un figlio – anche se la narrazione è rigorosamente in terza persona - ziu Attilliu rivela la sua vera natura e personalità soprattutto nei dialoghi con il suo fedele amico, Maistu (maestro) Farina. Emerge una personalità forte, di uomo “tutto d’un pezzo”, che induce i suoi compaesani a ritenerlo un nostalgico del regime appena caduto. Ma ziu Attilliu non è affatto un fascista: è piuttosto un libero pensatore, un uomo che conosce il mondo e le vicissitudini della vita, che si è fatto da sé e che elargisce a piene mani la sua saggezza attraverso espressioni dialettali (puntualmente tradotte in italiano), spesso argute e divertenti, che svelano una saggezza innata, non appresa sui libri, ma sulla propria pelle, attraverso le difficoltà e le sofferenze di chi non è nato ricco ed è riuscito a conquistare la stima ed il rispetto, non solo dei suoi familiari, ma anche dei compaesani.
Perché c’è anche questo nel racconto: tutto un paese che si muove, parla, racconta, riferisce, critica e dà lo spunto a ziu Attilliu di esternare, con i suoi commenti, la sua personalissima visione della vita: “Nasciamo tutti uguali e con la stessa qualità: l’ignoranza. Infatti non sappiamo nulla di ciò che è bene e ciò che è male… Nasciamo che non siamo nulla, su un progetto fatto da altri.” Queste le parole con cui si congeda dalla vita nell’ultima confidenza resa al fedelissimo amico di sempre. Dopo la morte della moglie, non sopravvisse a lungo perché se “…lui era il pilastro della famiglia, Chierina [era] le fondamenta. Mancando lei, vacillò paurosamente”. Un uomo capace di amare, ziu Attilliu – ecco cos’era – e portatore di una visione della vita così intensa, di una "filosofia" nata soprattutto dalla saggezza e dal buon senso della gente semplice, testimone di un modo di vivere e di un mondo - il “nostro” mondo sardo - che non esiste più ma che fa parte di ognuno di noi.
Ecco, ancora una volta la marea è arrivata all’improvviso e ritrovo intatti momenti, parole e gesti ormai insoliti, ma che nel mio mondo di bambina erano così comuni e che credevo dimenticati per sempre. Leggere è stato come ritornare a casa e rivedere… mio padre.

(Liliana Manconi)

Francia e l’Inghilterra degli anni tra il 1830 e il 1840 fanno da sfondo all’ultimo romanzo di Bianca Pitzorno, scrittrice molto amata anche dal pubblico giovanile per le sue storie fantasiose e per programmi televisivi per ragazzi come L’angelo azzurro. Le avventure  dell’orfanella Sophie e della sua benefattrice Céline, un’étoile dell’Opéra di Parigi vittima di un uomo senza scrupoli e dell’avidità dei parenti, sembrano a prima vista solo il pretesto per tratteggiare con meticolosità il quadro sociale di un’epoca, ricostruito dall’autrice sulla base di una documentazione ponderosa e attraverso un punto di vista quasi esclusivamente femminile. Realtà storica e fantasia si fondono nelle peripezie vissute dai protagonisti fino allo scontato – e forse un po’ forzato - lieto fine.
Quello che, però, rende particolarmente originale e intrigante quest’opera è la scelta della protagonista: Sophie, l’umile orfanella che le prove della vita porteranno fino in Inghilterra nel ruolo – fittizio – della bambinaia, è un personaggio che si delinea a poco a poco e si svela pienamente nella seconda parte del romanzo, dove la storia della Pitzorno si intreccia a quella, celeberrima, di un classico della letteratura romantica inglese ottocentesca… ecco l’idea: elevare al ruolo di protagonista della propria storia una figura marginale di un’altra opera, coinvolgendo il lettore in un “gioco letterario” affascinante che lo porta a vivere in due romanzi contemporaneamente, ma in una prospettiva rovesciata: qui è l’eroina inglese che diventa personaggio marginale, come se la Pitzorno volesse, in un certo senso, ristabilire un equilibrio “ideologico” contro la visione non particolarmente positiva della Francia post-rivoluzionaria che emerge  dal romanzo inglese.

(Monica Anelli)

                                                      

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