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POESIA

C

"Piedini nudi" è una raccolta di poesie e pensieri sul mistero della vita che è racchiuso nel Natale. Un libro gonfio di dolcezza e di serenità, che parla al cuore di credenti e non credenti, di tutti coloro che sanno ancora stupirsi davanti al miracolo di un bimbo e dei suoi "piedini nudi".
Un libro che ha dentro di sé una storia. Autrice del libro è una monaca benedettina, madre Anna Maria Cànopi, abbadessa dal 1973 di un monastero da lei fondato e davvero unico: l'abbazia Mater Ecclesiae che sorge sull'isola di San Giulio, un piccolo scoglio di roccia al centro di un piccolissimo lago, il lago d’Orta, caro a Montale e a Rodari, che vi era nato. Questo libro ha un fascino tutto particolare. È un libro, questo, nato e tessuto di puro silenzio.
C'è, nelle pagine delicate di Anna Maria Cànopi, molto della sua storia di donna e di donna di fede. C'è uno scavare delicato nella memoria, per risalire indietro, fino ad un Natale lontano, un Natale dell'infanzia che è, singolare coincidenza, un Natale di guerra, quello del 1940. "Da sei mesi", scrive la Cànopi, "era scoppiata la seconda guerra mondiale. "Verrà ugualmente il bambino?" ci si domandava. [...]
Da circa sei mesi era nato anche il suo ultimo fratellino: l'ottavo! “Non eravamo andati alla messa di mezzanotte, ma a quella del giorno di Natale, la "messa grande". C'erano meno uomini perché molti erano già partiti per la guerra. Mi sembrava strano cantare - come sempre - la bontà, la pace e la gioia del Natale sapendo che intanto c'era la guerra e gli uomini si odiavano e si uccidevano a vicenda".
Anche in questi ultimi anni il Natale è Natale di guerra. Amara constatazione. Le pagine di madre Anna Maria Cànopi potranno accompagnarci come per mano alla ricerca di una "oasi intatta e sempre verde: il Natale dell'infanzia", che sopravvive con la sua tenerezza anche alle guerre del cuore e a quelle delle armi micidiali.

(Adele Chiappisi)

 

 

Questo scritto di Vito Antonio Conte colpisce immediatamente per la caratteristica del “continuum”: i versi collegati tra loro, ma volutamente senza titolo e senza punteggiatura.
Scorrendo le pagine ci si rende conto di come il fare e farsi parola non rimanga sospeso nei versi, ma diventi motivo di discussione e di interazione sul risultato della creatività, divenendo esso stesso ragione di ulteriore creare.
Non c’è un indice, quindi si può cominciare a leggere da qualsiasi punto, aprendo una pagina a caso, ma con una prerogativa: non ci si può e non ci si deve scandalizzare.
Ci sono parole “forti”, che ricordano lo stile di Henry Miller… o forse no. Colpisce “lights the breeze/ le manette e il picchio sul cuore di Leonard Cohen” e i brividi sono lì, a ricordarti “la voce di rasoio “ che intona “hallelujah”. Versi dolcissimi: ”nevica sui tuoi capelli/se ti chiamo/ e poi mi guardi/ in una strada intera di silenzio/ e fa male”. Parole rivolte ad un soggetto conosciuto da tutti, ma da tutti volutamente ignorato: “Riuscite a vedere? / Immaginate se potete……………/ Poi, provate a vivere!”.

(Tania Conte)

D

 

Con dulce voz y pluma diligente,
Y no vestida de confusos caos,
Cantáis, Tomé, las bodas, los saraos
De Zapaquilda y Mizifuf valiente.
Si a Homero coronó la ilustre frente
Cantar las armas de las griegas naos,
A vos de los insignes marramaos
Guerras de amor por súbito accidente.
Bien merecéis un gato de doblones,
Aunque ni Lope celebréis o el Taso,
Ricardos o Gofredos de Bullones.
Pues que por vos, segundo Gatilaso,
Quedarán para siempre de ratones
Libres las bibliotecas del Parnaso.

Così inizia La Gattomachia, indubbiamente l’opera più importante e conosciuta di Lope de Vega. Meraviglioso e raro esempio di poema burlesco, fu scritta dal poeta per il figlio Lope Felix, in occasione della partenza del giovane per una spedizione navale finita poi tragicamente. Divisa in sette canti (selve), fa parte (parte corposa e significativa!) delle Rimas Humanas Y Divinas.
Vi si narra l’istoria del valoroso gatto Marramachiz, avventuriero solitario, innamorato della gatta Zapachilda, di come da ciò nascesse una complicata trama di inganni amorosi, duelli sanguinosi e agguati, di come si scontrassero le armate dei due rivali, in una guerra che ricorda la guerra di Troia e di come, poi… Numerosi sono i protagonisti (i gatti!) e ognuno di essi è descritto nelle sue particolari peculiarità e caratteristiche, con tenerezza ed ironia. Nulla di tragicomico, però, signori, si parla di GATTI, e il poeta, in ogni verso, esprime profondo rispetto, ineguagliabile stima, immenso affetto e la più alta considerazione per gli augusti protagonisti.
Il finale è tragico e straziante per l’eroico Marramachiz. Gli dei, ahimè, sono invidiosi degli eroi, anche se felini. Le sue gesta epiche, però, resteranno, ad imperitura memoria, a testimoniare il coraggio, la forza, l’intelligenza, la sagacia, la bellezza di un soriano che, a cavallo di una scimmia, “viveva i suoi amori con affanni amorosi”…

Era el gatazo de gentil persona
y no menos galán que enamorado:
Bigote blanco y rostro despejado,
Ojos alegres, niñas mesuradaso occhi allegri,
De color de esmeraldas diamantadas…


Era il gattone di gentil figura, tanto galante quanto innamorato: baffetti bianchi e sembiante vivace, occhi allegri, pupille misurate, di color di smeraldo diamantate…

(Maria Cristina Rosa)

E

È una faccenda difficile mettere il nome ai gatti; niente che abbia a che vedere, infatti, con i soliti giochi di fine settimana...
Comunque gira e rigira manca ancora un nome: quello che non potete nemmeno indovinare, né la ricerca umana è in grado di scovare; ma il GATTO LO CONOSCE, anche se mai lo confessa.
Quando vedete un gatto in profonda meditazione la ragione, credetemi, è sempre la stessa:
ha la mente perduta in rapimento ed in contemplazione del pensiero, del pensiero, del pensiero del suo nome: del suo ineffabile effabile effineffabile profondo inscrutabile ed unico NOME.”
Opera somma, capolavoro ineguagliabile di T.S.Eliot, Il Libro Dei Gatti Tuttofare ha ispirato il musical “Cats” e “La ballata del vecchio marinaio” di Coleridge.
Giorgio Albertazzi ha avuto il grande onore di leggere, in diverse occasioni, brani tratti da questo celeberrimo, meraviglioso testo.
Stilisticamente poi… senti, Umana, devo continuare su questo tono? Tutte queste chiacchiere, a noi, ci fanno un baffo, anzi, una vibrissa.
A me basta sapere che il sommo autore di “Assassinio nella cattedrale” abbia parlato dei miei simili…
Ecco, presa dal sacro furor della recensione, dimenticavo di fare una piccola introduzione. A porgervi, con poche raffinate parole, questo capolavoro, questo monumento alla felinità e ai suoi molteplici, misteriosi, affascinanti aspetti, sono stata eletta io, Gatta Margò. Ahimè, per questioni… cronologiche, non fui cantata e celebrata dal poeta. Peggio per lui. Ben altro onore e altra fama ne avrebbe ricavato. Ma non tergiversiamo e andiamo avanti.
Andate a cercare il libro, è un autentico capolavoro. Conoscerete Sandogatt e la sua ultima notte, Gattatrac e Gattafascio, Baffotorto e Rompisgattolo, Gàssgatt e Bustoforo. Gatti singolari, bizzarri, energici, indaffarati, pigri. Gatti centenari, gatti filosofi, gatti ladri, gatti masnadieri.
Il libro è illustrato da Altan, e anche questo la dice lunga sull’importanza e sulla superiorità della nostra razza. Sì, va bene, pure sull’importanza del poema, ma insomma, Eliot fa tutto un poetar di gatti, mica di pecore o armadilli, perdindirindina.
La mia umana mi sta suggerendo di consigliarvi la lettura del capolavoro in questione in lingua originale, o almeno con il testo originale a fronte. Sì, ma a fronte di chi? Quale fronte? Calma, calma, mi sembra di essermela cavata bene finora, no? Tutto quello che mi è stato concesso di anticiparvi, è il canto dei Lattiginosi, al quale gli umani più vicini a noi possono avere l’onore di unirsi…
Jellicle cats come out tonight
Jellicle cats come one, come all
The jellicle moon is shining bright
Jellicles come to the jellicle ball
Andate, andate a cercare il libro. Io torno su uno dei miei poggiacorpo preferiti, secondo il vizio o il vezzo, a contemplare il mio nome. Quello che non conoscerete mai. Nemmeno tu, cara la mia Umana.

(Maria Cristina Rosa)

F

Ancora una raccolta di rime, in quest’ultima pubblicazione di Franca Floris Ledda dal titolo Emozioni e Pensieri. Tornano le tematiche tanto care all’autrice, che non smette mai di ascoltare il suo cuore e trasformare le sue emozioni e i suoi pensieri in altrettante parole magicamente assemblate in componimenti che sembrano ricami e trine. Le parole sono il suo sfogo e la sua consolazione: a volte – raramente – richiamano momenti di pacata serenità, mentre più spesso, sono velate da una latente malinconia che pervade quasi tutte le sue liriche. È sufficiente scorrere i titoli delle poesie per rendersi conto del filo conduttore di tutta la raccolta: la consapevolezza di un’esistenza compiuta, di un percorso che volge al termine. Casa vuota, Solitudine, Nostalgia, Storie tristi, Ricordi, Rimpianti, Addii, Silenzio, Pace: è un’anima che soffre e che pare congedarsi riversando nelle sue rime la parte di sé che non avrà mai fine. Si prova quasi una sensazione opprimente nel leggerle, una tristezza infinita che fa vacillare – ma solo in minima parte – la pura liricità di altri versi, quei versi che disegnano il suo rapporto con la natura. Eccola, la vena poetica di sempre, limpida e intensa come il profumo di un fiore: Tramonto, Volare, Farfalle, Maestrale, rime luminose e colorate in un armonico tutt’uno con il Creato, destinate a “ingannare l’oblio”.


(Liliana Manconi)

Il ricordo domina incontrastato nella nuova raccolta di poesie fresca di stampa: è l’ultima fatica poetica di Franca Floris Ledda, che affida i suoi pensieri più intimi alle parole che le sgorgano dal cuore. Il suo far poesia non è una costruzione razionale, una ricerca laboriosa ed elaborata ma è un canto spontaneo dell’anima, che nasce dall’attenzione anche alle più piccole cose della vita quotidiana. Scorrono così, in questi versi carichi di sentimento e ricchi di parole sapientemente amalgamate, brevi riflessioni, quasi dei flash, su ciò che più le sta a cuore. E tornano i temi a lei tanto cari: i suoi affetti, la natura, il tempo che fugge, la malinconia di una giornata grigia, la gioia della luce e dei colori della natura, la paura ed i ricordi. Come non emozionarsi nel leggere “Rimembranze”? Come non commuoversi davanti all’intensità di “Ai miei genitori”, o a “Sensazioni”? Questo è ciò che personalmente chiedo alla poesia: suscitare emozioni. Mi affascina questo saper “vedere” dentro le cose (“Spettacolo”), riuscire a tradurre in magiche parole, sensazioni (“Paura”) ed emozioni (“Stretta di mano”). Mi ritrovo in queste rime libere, nella successione lineare di versi brevi ma densi di significati nascosti. E mi riconosco ancor più nelle parole che chiudono il libro in calce alla copertina, parole che spiegano il significato profondo della raccolta e del suo titolo:
“Assaporo la malinconia dolce
dei ricordi lontani.
Essi sono simili a “sprazzi di luce”,
a un sospiro di vento primaverile
in una uggiosa giornata.”


(Liliana Manconi

 


“ …si era inventato la vita
sulla danza delle dita
per non sentirsi piuma di gazza
ferma
nella zanzariera
al soffio
della brezza di mare.
Non aveva nome
né padre né amori
funambolo
con la corda tesa
sull’erba blu….”

La condizione che attraversa questa poesia che Maria Pia Romano propone nella raccolta “ Il funambolo sull’erba blu” è lo stupore.
È lo sbalordimento per le cose che accadono, per i sentimenti che si provano, per le parole che si dicono, per i pensieri che maturano nel tempo o che fiottano improvvisi, per l’amore e il disamore, le passioni e le apatie, euforie e malinconie, per i sogni e i risvegli impetuosi, senza incanto.
Ancora una poesia d’amore. Ancora un altro amore. Perché non c’è mai nulla, non ci può essere mai nulla, fuori o senza quell’amore che si avverte sulla pelle, nelle vene, nella mente, che cattura ogni momento, che fa fremere e aspettare, che richiama, che trascina, che abbandona, che condanna al naufragio e che poi salva anche portando alla deriva. Quello di Maria Pia Romano è soprattutto un amore ripensato e rivissuto attraverso la memoria. Non il ricordo, un solo ricordo, una somma di ricordi, ma la memoria, quella rete elaborata e strutturata. Tessuta nodo con nodo, dolore con dolore, felicità con felicità, emozione con emozione, memoria delle esperienze e delle fantasie, delle presenze e delle assenze, delle fughe e dei ritorni,
Dice Maria Pia Romano: “ Siamo ciò che amiamo”. Di conseguenza, fuori dall’amore non c’è niente; ma non c’è niente neanche prima e neanche dopo l’esperienza dell’amore; prima e dopo c’è soltanto il deserto dell’assenza, il vuoto di ogni senso.
L’amore non si può nemmeno dire. Si può soltanto chiedere il conforto di metafore consunte, di simboli che si compongono di stratificazioni di tempo e di immagini.
Con questa condizione dell’indicibilità dell’esperienza d’amore fa i conti la poesia di Maria Pia Romano. Ma dentro e dietro tutte le parole, c’é una radice che affonda in una perdita, in un abbandono. C’è la sofferenza da cui viene ogni canto. La perdita da cui nasce ogni poesia d’amore. Il bisogno di voltarsi indietro anche a costo di perdere per sempre.

(Tania Conte)

                                                      

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