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K

Fare del riordino un’arte, una forma di cultura è l’impresa a cui Marie Kondo si è dedicata dall’età di 5 anni, trasformando la sua passione in professione. Forse non è a caso che tutto ciò accada in Giappone dove la filosofia Zen ha radice ben solide e permea la mente e lo spirito.

Per me, figlia dell’Occidente, l’organizzazione degli spazi domestici rientra in quell’educazione familiare, trasmessa di madre in figlia, attraverso l’esperienza quotidiana di vita “in famiglia”. Nel nostro sistema scolastico, è stata impartita con formulazioni diverse, poi dal 1977, trasformata in Applicazioni Tecniche le cui finalità e contenuti nulla hanno a che vedere con la precedente idea gentiliana di economia domestica che forse qualche legame poteva vantare con la ricerca dell’ordine e il controllo degli spazi del metodo Kon-mari.

Per Marie Kondo, figlia dell’Oriente, il riordino è legato al nostro spirito e rispecchia uno stato dell’anima; in un mondo che ci spinge al consumo e dove la felicità sembra dipendere dal possesso delle cose, la capacità di liberarci da ciò che non ci serve più o da ciò che non suscita più in noi emozioni o sentimenti, rappresenta la capacità dello spirito di liberarsi dal passato e di guardare al futuro con serenità, dando valore alle cose veramente importanti.
Tutto questo ci viene spiegato con una metodica ben precisa, esperita dall’autrice prima di tutto su se stessa e poi nei corsi con i suoi studenti:
• Procedere per categorie, lasciando per ultimo le più difficili (foto e documenti personali)
• Liberarsi di tutto ciò che non serve
• Mettere in ordine ciò che rimane

Sperimentato l’ordine perfetto, “l’effetto magico del riordino” porterà ad una nuova consapevolezza e ad una nuova visione di se stessi e della propria esistenza che influirà anche sulle scelte future. Quello di Marie Kondo è un animismo a tutto campo, dove gli oggetti non sono neutri, ma partecipano all’armonia del mondo e dove ogni gesto, anche il più semplice e banale, diventa quasi un rito divino

Considerato il successo mondiale raggiunto dal libro in poco tempo, basta infatti digitare “riordino” su un motore di ricerca e su youtube per scoprire un mondo di video, tutorial, articoli da blog legati al metodo giapponese Konmari, vien da pensare che nell’attuale momento storico il desiderio di ordine, pulizia, essenzialità sia imperativo e pressante.

(Lucia Bartoli)

L

L’intento della scrittrice è dimostrare che “Conoscere il vero volto dell’Islam al di là di stereotipi superficiali è l’unica strada civile per la convivenza e l’integrazione”. Intento non facile, soprattutto nel periodo che stiamo vivendo, ma che l’autrice affronta con professionalità, lucidità e, soprattutto, dimostrando una grande conoscenza del mondo islamico in Italia. Inizia con uno sguardo complessivo, e già qui emergono differenze che, nel corso della lettura, si faranno sempre più numerose ed evidenti... Angela Lano passa poi ad una presentazione approfondita della situazione dei giovani islamici nel nostro paese. Lascia a loro la parola ed emergono situazioni diversissime, che testimoniano quanto siano differenti le modalità d’integrazione (e non…) e quanto siano diversi gli stati d’animo, le speranze, i desideri, i progetti per il futuro di questi ragazzi. La seconda parte è dedicata ad un viaggio attraverso alcune città italiane, partendo da Torino, arriva a Milano, a Genova, a Firenze. Va a Roma e anche a Napoli. L’intento è “ripulire” la mente del lettore da falsità, generalizzazioni, strumentalizzazioni cresciute intorno al mondo arabo, a questo islam che fa tanta paura. Non è un obiettivo facile, ma quel che colpisce è l’assoluta lucidità, il rigore, l’obiettività, la mancanza di pregiudizi e tesi precostituite che l’autrice dimostra, da profonda conoscitrice del mondo arabo. La Lano non esprime pareri, non manifesta opinioni personali, lascia parlare i suoi stessi interlocutori, imam e fedeli, fondamentalisti, integralisti, moderati, giovani musulmani e convertiti, donne velate e non, uomini con o senza barba. Sono persone diverse fra loro, italiani e non, ognuno con esperienze distinte e non generalizzabili, pacifici ed inquietanti, ma che rappresentano, comunque, un qualcosa che vive all’interno del nostro paese e con il quale, volenti o nolenti, dobbiamo metterci in discussione, comunicare, conoscere, poiché, come dice Nicola Lombardozzi nella prefazione, “l’Islam è un mondo complesso che merita assoluto rispetto, e con mille sfaccettature. Alcune di esse devono metterci in guardia; altre dobbiamo conoscerle a fondo per migliorare il dialogo; da alcune, forse, abbiamo molto da imparare”.

(Maria Cristina Rosa)

 

Il sottotitolo di questo libro è: Contro l’abuso delle identità. Gad Lerner, ebreo nato a Beirut, con ascendenze varie e plurime, è stato apolide fino a trent’anni, ora è cittadino italiano e la sua ultima “identità” è quella di uomo di campagna in una cascina piemontese. La realtà è che siamo tutti “bastardi”, come il cane J, anche se cerchiamo di riciclare improbabili appartenenze etniche, religiose, politiche,  culturali, perfino calcistiche, spesso impugnate strumentalmente contro altre fasulle identità altrui. Non si salva nessuno dall’attacco al fanatismo identitario: gli ebrei che sembrano nostalgici del ghetto quanto gli antisemiti, i cristiani senza fede che rivendicano le famose “radici” d’Europa, tutti coloro i quali “si inventano di credere in qualcosa” per ragioni di convenienza politica, economica o mediatica. Ognuno crede, rivendicando magari un immaginario glorioso passato, di difendere se stesso contro il rischio più temuto: l’assimilazione, la fusione, il meticciato. Mentre in realtà siamo tutti meticci; ed è proprio superando i confini che possiamo ristabilire una nuova etica e una nuova possibilità di convivenza tra gli uomini.  Gad Lerner disegna infine un commosso ricordo di un “uomo di confine”,  Alex Langer, l’altoatesino di lingua tedesca che si dichiarò ladino per protesta, e dalle sue valli partì per incontrare ogni minoranza minacciata, esaltando l’osmosi e il “tradimento” delle appartenenze.

(Daniela Borsato)

 

 

Intelligente, arguta, ironica e dissacrante... è Luciana Littizzetto con la sua ultima produzione. Che dire? Puro divertimento, non disgiunto, come sempre, da amari spunti di riflessione sull’eterno conflitto tra uomo e donna, sull’eterno bisogno d’amore e gratificazione che spinge le donne più fragili, e di certo più disturbate, a giungere all’insana determinazione di rifarsi chirurgicamente qua e là.....”là” in particolare..., sottoponendosi alla cosiddetta imenoplastica.
Quando si legge questo libro, dopo un po’ ci si accorge di ridere a crepapelle, soprattutto perché sembra di vederla, sempre con quell'aria da bambina sveglia, incontenibile, vulcanica, camaleontica, irrefrenabile, mentre ti racconta situazioni che spesso accadono realmente nelle nostre case, oltre che nella vita pubblica.
E ridendo ridendo, si assiste alla sfilata di innumerevoli “tipi” maschili, colti nelle loro nevrosi e nei loro tratti tragicomici che noi donne, tutte, abbiamo modo di sperimentare e toccare con mano nel quotidiano. Non è esclusa dalla parade nemmeno la satira politico religiosa: irresistibile il tono dissacratorio con cui “Eminence Ruini” viene letto in chiave umoristica ma pur così sottilmente critica delle sue rigidità, dei veti e della scarsa disponibilità cristiana all’apertura verso gli altri che pure ci si aspetterebbe da un alto prelato. E poi ancora... il sindaco di Londra che suggerisce, in nome del risparmio idrico, di usare lo sciacquone ogni due o tre pipì.... o il “puzzone” di turno, capace di far dissolvere in un attimo anche l’estro erotico più forte e raffinato....
Insomma, come sempre, tra il faceto ed il molto serio che esso cela, la Littizzetto ci regala qualche ora di autentica ilarità. La lettura, assolutamente non impegnativa e leggera, ci distoglie per un attimo dalle quotidiane peregrinazioni. Da sottolineare la scorrevolezza e l’immediatezza espressiva: pare proprio di trovarsela lì, di fronte a noi, come nella fortunata trasmissione di Rai Tre “Che tempo che fa”, della quale è ormai graditissima ospite fissa; rara espressione di una tv finalmente intelligente e libera.

(Mirella de Nucci)

Il libro raccoglie scritti di diversi autori, sloveni, bosniaci, italiani, inviati di quotidiani di differente orientamento politico, studiosi; il risultato è una ricostruzione precisa e documentata dei recenti eventi bellici nella tormentata terra dell’ex-Jugoslavia.
1994-2001, gli anni di una guerra di molte guerre, di molti popoli, di diverse ragioni. Sono circa 500 pagine, ma vale la pena leggerlo, perché all’epoca, complici un’informazione parziale e un’opinione pubblica distratta e superficiale, siamo stati in molti ad averci capito poco. Il mio consiglio è di leggere tutto con attenzione, ma non cercare di tenere a mente l’enorme quantità di informazioni, di nomi, di sigle, di date. Slovenia, Croazia, Bosnia, Kosovo, Macedonia, sono i capitoli di questa complicata tragica storia. La ricostruzione degli eventi è ulteriormente arricchita da un’appendice che ripercorre la storia dei popoli balcanici, dalle origini ai giorni nostri, e da una dettagliata cronologia. Emergono con chiarezza alcune amare verità. Quello che a noi è sembrata una confusa storia di antichi e irrazionali odi tribali è invece un disegno, pianificato lucidamente molto tempo prima e in parte riuscito. Le stragi, il terrore, gli stupri, la pulizia etnica, erano studiati a tavolino, uno schema sempre identico: terrorizzare gli abitanti di un territorio per costringerli fuggire, occupare i villaggi, chiamare le organizzazioni internazionali a sancire il fatto compiuto ed annettere così un nuovo pezzetto di “Grande Serbia” o “Grande Croazia”. Così si spiega ad esempio la strage di Srebrenica, il più grande massacro verificatosi in Europa dopo la seconda guerra mondiale, perpetrato con la connivenza dei caschi blu. Così si spiega l’assedio di Sarajevo, altro terribile record battuto, un assedio più lungo di quello di Leningrado. Da parte del resto del mondo non c’è stata solo indifferenza, ma in alcuni casi complicità attiva; ad esempio la Germania per prima (insieme al Vaticano) ha riconosciuto la Croazia, non solo, ma l’ha armata, come d’altra parte ha fatto la Russia con la Serbia di Milošević.
Nel frattempo la comunità internazionale sprecava tempo in appelli alla pace e inutili embarghi che ipocritamente mettevano sullo stesso piano aggrediti e aggressori, assediati e cecchini, profughi e deportatori, fino a trovarsi costretta a intervenire nell’unico modo ormai possibile: con le bombe e i loro inevitabili “effetti collaterali”. Altre vite innocenti sacrificate ad una pace quanto mai precaria e provvisoria.
“…l’insipienza, la dilazione, la viltà (e l’interesse pratico e il pregiudizio fazioso) della comunità internazionale hanno una parte nell’esplosione della tragedia. L’esperienza dei Balcani ha segnato un ulteriore gradino nella vecchiezza del Vecchio Mondo, un’esitazione quasi insuperabile a dire “Mai più”. Che sia almeno in parte compensata da una cura più tempestiva e attenta per la prevenzione (…) Mi piacerebbe dire che la storia serve a questo, dunque anche il bel libro che avete in mano. Ma non ci credo, oppure sì: come un secchiello di bambini in mezzo a un’alluvione del bel Danubio blu.” (dalla prefazione di Adriano Sofri)

(Daniela Borsato)

 

Irshad Manji è una giornalista nata in Uganda, cresciuta in Canada, dove vive (e questa condizione così occidentalizzata si avverte pagina dopo pagina…). Senza troppi complimenti, si rivolge ai suoi fratelli musulmani, invitandoli ad una rilettura del Corano, ad una riforma dell’Islam che tenga conto della condizione delle donne e degli omosessuali. Nella prima parte del libro, l’autrice individua i punti deboli del sistema della sharia, della fatwa, del monopolio dell'Arabia Saudita nell'interpretazione del Corano, invitando il mondo islamico, attraverso l’ijtihad, cioè la tradizione islamica del libero pensiero, a rivedere ed aggiornare la pratica religiosa nell’ottica degli eventi contemporanei.
La prima parte ha una caratterizzazione religiosa che invita alla riflessione e stimola l’approfondimento.
Nella seconda parte, quando si affronta la questione politica, legata al conflitto palestinese, qualcosa non torna. Dalle imprecisioni storiche, alla mancanza di rigore obiettivo. Una frase come "Be', se non altro dalle torture sioniste si esce vivi" lascia stupefatti e spiega un dito costantemente puntato sull’intolleranza religiosa islamica in quanto islamica e non in quanto intolleranza. Un bell’inchino, modello Fallaci, verso le altre religioni monoteiste, verso il cristianesimo e soprattutto l’ebraismo, madre di tutte le religioni, lascia una sensazione di ambiguità, di qualcosa che non è finito come è iniziato, che confonde obiettivi e convinzioni. Inchino ancora più profondo dopo la visita (gratuita, eh!) ad Israele…
Un libro, comunque, che ho letto con piacere ma anche con fatica, cercando di non perdere di vista la necessità di conoscere, di imparare, di sapere, con un occhio al lato progressista dell’Islam e l’altro alla situazione attuale laggiù, in un momento in cui ritengo certe indulgenze dell’autrice non propriamente condivisibili.

(Maria Cristina Rosa)

 

È la poesia di una vita dedita alla medicina, agli animali e alla costruzione della casa del “sole”. Axel Munthe ha esercitato la brillante professione di medico/psicologo soprattutto a Parigi e a Roma; Anacapri è stato il suo rifugio, un Paradiso, il vero scopo della sua vita. Fu medico di nobili e miserabili, frequentò fastosi palazzi e bassifondi in cui le malattie infettive falcidiavano i poveracci. Fu presente a Messina distrutta dal terremoto e nella Napoli del colera, ma sempre, ad ogni costo, tra i suoi più affezionati compagni vi furono gli animali: cani, scimmie, uccelli, che gli stettero accanto ogni minuto della vita, fino alla morte. Una vita di successo la sua, ma soprattutto dedita alla costruzione di San Michele ad Anacapri, ove visse i momenti più belli della vita tra contadini analfabeti che lo accolsero e trattarono come un illustre cittadino. Costruì con le sue mani la casa del sole, in uno stile architettonico che è venuto fuori da solo, a strapiombo sul mare e in cima alla scala fenicia di 777 scalini, con la Sfinge che controlla i viandanti ed è custode di un grande segreto. Comprò il terreno coltivato a vigneto da mastro Vincenzo e la cappella di San Michele per adibirla a biblioteca personale. Dal terreno emersero colonne, vasi, statue, pezzi di marmo colorato dell’epoca di Tiberio, imperatore romano, e con quelle realizzò quel piccolo paradiso terrestre in cui visse, un magnifico museo che accoglie ancora oggi visitatori ed estimatori.

(Sebastiana Schillaci)

 

                                                      

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