ex cathedra

Incoscienze… in coscienza

Lui aveva diciassette anni, io ne avevo dieci di più. Lui faceva la seconda media, io ero appena entrata di ruolo nello stato ed ero la sua prof. Provenivo da vari anni di insegnamento in una scuola privata tenuta da religiosi: un ambiente protetto, sereno e forse anche un pochino viziato.
Lui era grande e grosso. I suoi compagni, a confronto, sembravano i suoi figli. Seppi che viveva in un istituto, poiché i suoi genitori erano in carcere e la zia, con la quale era stato per un po’, lo picchiava. Aggressività repressa, ovvio, che si sfogava sui compagni. Litigi, scazzottate e piccoli furti erano all’ordine del giorno e in classe lui era quasi incontenibile: parlava a voce alta, si sdraiava per terra, gironzolava a toccare la roba di tutti facendo finta di rubarla o di fare i dispetti. Un disastro.
Ricordo che provai a fargli qualche battuta, ma con scarso successo. Recuperai un po’ di punti quella volta che tirò fuori un coltellino dalla tasca e minacciò alla gola un compagno. Agii in un lampo, d’istinto. Appoggiai le mani sul piano della cattedra e la scavalcai con un balzo. Ero giovane, roba che adesso nemmeno con la gru. In un attimo fui tra i banchi, gli presi la mano e gli dissi:
-Prova con me: ad ammazzare una prof c’è più gusto.-
Una cosa da incoscienti. Mi guardò, tacque e si lasciò sfilare il coltellino di mano, mentre la classe era sbalordita più per lo spettacolo da circo di me che saltavo oltre la cattedra che per lo sventato pericolo. Mascherai i battiti del cuore a mille continuando la lezione come se niente fosse e per quel giorno tutto andò bene. Ma chissà, forse in lui era scattata la molla del rispetto, perché quando in classe c’ero io se ne stava buono buono nel banco a farsi gli affari suoi. A volte continuava a sdraiarsi per terra, ma veniva bellamente ignorato o fatto oggetto di battute quali:
- Buonanotte… cavoli, quanto piacerebbe anche a me fare una bella dormita, e invece devo stare qui a raccontare un sacco di palle per guadagnarmi lo stipendio…-
Lui non era affatto stupido. Aveva solo quell’esibizionismo che proviene dalla solitudine e dalle carenze di affetto. Ma io non lo sgridavo scandalizzata, non lo guardavo come una bestia da compatire come facevano gli altri, come avevano sempre fatto tutti, dai parenti, agli educatori, agli insegnanti. Cercavo di trattarlo come una persona normale, perché aveva tutti i requisiti per esserlo. In classe però non sapeva rimanere a lungo; ogni tanto usciva, e bisognava tenerlo d’occhio, oppure venivano a prenderlo gli educatori dell’istituto e lo tenevano nella saletta, o lo portavano un po’ fuori.
Un giorno lo vidi uscire mogio mogio dalla presidenza, con una bidella che lo riaccompagnava in classe.
- Che hai fatto? – gli chiesi.
Mi spiegarono che era uscito dall’aula, si era arrampicato sulle impalcature dell’edificio che era in ristrutturazione ed era entrato al secondo piano dalla finestra di un appartamento (la scuola era al piano terra di uno stabile civile), spaventando a morte una vecchietta.
- Volevo solo una sigaretta… - mi disse lui.
- Che deficiente! – gli risposi – c’era bisogno di fare tutto quel casino? Bastava che venissi da me in sala professori e te la davo io, ce la fumavamo insieme e ti rimandavo in classe…-

Rubava le merende ai compagni. Riuscii a convincere qualcuno di loro a fare a metà con lui, tanto che poi qualcuno glene portava una da casa.
Una volta lo trovai che si rotolava per terra in corridoio e urlava in preda a una crisi isterica. Due educatori cercavano di calmarlo con poco successo. Chiesi di avvicinarmi, ma me lo sconsigliarono per il pericolo di prendermi qualche calcio, e con quegli scarponi a carrarmato non sarebbe stato piacevole. Riuscii però a convincerli e mi sedetti su un gradino lì vicino, dicendogli:
- Quando hai finito avvisami, io ti aspetto, così poi parliamo.-
Non ci mise molto. Era solo un modo, quello, per attirare l’attenzione. Rischiai, però, e lo capisco adesso: allora ero giovane e incosciente.
- Se stai bravo ti porto a fare un giro – azzardai, e chiesi alla preside, dato che avevo l’ora buca, il permesso di portarlo un po’ fuori.
- Sotto la tua responsabilità! – acconsentì lei, che era una brontolona, ma anche una brava donna.
Rischiai ancora in modo più o meno cosciente e uscimmo tra le mille raccomandazioni degli educatori. Non fu un gran giro: il perimetro della scuola, il giro della piazza, una sigaretta fumata su un muretto. Ma lo vedevo felice. Guardava per terra con insistenza e a un tratto mi disse:
- Sai che bello se trovassi cinquemila lire?-
- E che te ne faresti? – chiesi io.
- Mi ci comprerei le sigarette.-
- Beh, se proprio ci tieni te le do io cinquemila lire – e feci per aprire il borsellino. Non le volle, e io fui contenta di quell’impennata di dignità. Tornammo in classe senza problemi; lui avrebbe voluto stare fuori, ma gli spiegai che avevo lezione e non fiatò.

Una domenica mattina andai a prenderlo in istituto e lo portai a Boccadasse. Glielo avevo promesso. Boccadasse è l’antico borgo dei pescatori genovesi. Ci sono le barche con gli uomini che riparano e sgrovigliano le reti. Lui rimase a guardarli incantato, poi chiese di dare una mano e glielo consentirono. Era al settimo cielo.
Da quel giorno, però, rallentai i rapporti, perché voleva sapere dove abitavo, e venire a casa mia. La cosa non mi piaceva e tutti mi dicevano di non fidarmi, che era pericoloso, che non me ne sarei più liberata, eccetera. E così feci. Mi sottrassi. Tanto più che quello per me era l’anno di prova, in assegnazione provvisoria. Ebbi il trasferimento e persi i contatti.
L’anno dopo lessi di lui sulla cronaca cittadina: era tornato a stare dalla zia e aveva tentato di scappare usando l’auto del nonno. Aveva rubato le chiavi, aveva messo in moto ed era partito. Aveva strisciato e rovinato diciassette macchine posteggiate, per poi piantarsi in fondo alla discesa. Era diventato maggiorenne, anche se naturalmente senza patente.

È l’ultima notizia che so di lui, confinata in un angolo della mia memoria insieme al rimpianto, forse, di non avere fatto abbastanza.

 

Paola Lerza