Affrontare una nuova esperienza professionale ad una non più
giovane età, dopo vent’anni di servizio in un Tribunale della Repubblica, è
stato per me una sfida che ho accettato con entusiasmo. Finalmente realizzavo il
mio sogno: vivere la scuola non più come alunna, o come genitore, ma come
docente! Ho ritrovato dentro di me, intatte, le mie aspirazioni e le mie
energie, che ho profuso a piene mani in un “lavoro” coinvolgente, impegnativo
ma... straordinariamente gratificante.
La mia precedente esperienza professionale è stata certamente altrettanto
gratificante: ho avuto modo di ampliare le mie conoscenze, ho goduto della stima
dei colleghi e dei giudici, ho cercato di svolgere al meglio i servizi che mi
venivano affidati, ecc..., insomma, non sono andata via per insoddisfazione o
per fuggire da un ambiente che non mi piaceva, ma ho rassegnato volentieri le
mie dimissioni perchè, fin da bambina, ho sempre amato la scuola, e quando mi è
stata offerta l’occasione di scegliere, non ho avuto dubbi nè tentennamenti:
sentivo dentro di me che insegnare era ciò che da sempre avrei voluto fare.
Mi sono quindi affacciata a questa nuova esperienza con gioia ma ben consapevole
dell’importanza che la scuola riveste nel processo formativo dei giovani, e
della responsabilità che comporta contribuire all’educazione ed alla formazione
di coloro che saranno gli adulti di domani.
Non nascondo che avevo molta paura. L’impatto con gli alunni era ciò che più mi
spaventava ed è stato invece molto positivo: la conoscenza di 15 adolescenti,
con le incongruenze tipiche dell’età, mi ha riportato indietro negli anni e ho
ricordato, all’improvviso, tutte le ansie, le paure e i sogni che hanno
caratterizzato la mia tormentata e tormentosa adolescenza.
Riscoprire la bellezza di un’età non sempre facile e piena di problemi ha
suscitato in me il desiderio di far vivere ai “miei ragazzi” un’esperienza
scolastica serena e di stimolare in loro l’interesse, il coinvolgimento e la
partecipazione a tutto ciò che la scuola ha da offrire.
Pian piano ho imparato a conoscerli, a capirli e a rispettarli, cercando di
instaurare con loro un rapporto di fiducia, senza trascurare l’autorevolezza che
il mio ruolo esigeva.
Intanto anch’io imparavo da loro: imparavo con loro a “fare” l’insegnante, a
misurarmi ogni giorno con esperienze nuove, ad inventare volta per volta
attività che avrebbero potuto facilitare il loro apprendimento, inserendo i
contenuti delle discipline in contesti più ampi, sfruttando tutte le occasioni
che mi venivano offerte – episodi comuni, discussioni, ecc. – per trasmettere
loro le conoscenze necessarie al raggiungimento di un buon profitto scolastico.
Queste le premesse e le conclusioni del mio anno di straordinariato: oggi, a tre
anni di distanza, inizio però a sentire un po’ d’amaro in bocca. Mi guardo
intorno, nel “tempio della cultura”, e mi accorgo che, pur con tante
apprezzabili eccezioni, la stragrande maggioranza dei docenti è indifferente e
apatica. Perciò mi ritrovo senza parole di fronte alla riflessione che mia
figlia Chiara ha messo nero su bianco sul suo blog, in Resoconto della mia
esistenza in un riassunto contorto, anzi… non posso fare altro che
chiedere scusa a lei e agli studenti come lei, pudicamente e a capo chino, a
nome di tutti quei docenti che hanno dimenticato di esserlo.
“ (…)I professori che non chiedono, che non
capiscono. Lanciano merda sulla merda e ci sputano sopra come cani, rimettendoci
la loro identità di insegnante, e c’è differenza tra insegnante e professore,
perché l’insegnante somiglia tanto a uno che ti insegna qualcosa scrivendotela
dentro; il professore è colui che professa la materia, che puoi capire o non
capire per niente.(…)” ma è convinto che
non sia affar suo, concludo io.
Purtroppo.
Carbonia, 22 luglio 2010
Liliana Manconi
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