Era un cinese, uno dei primi immigrati
stranieri dalle nostre parti. Arrivò in quinta elementare, aveva già
quattordici anni e un accenno di baffi.
Bussò alla porta dell’aula e si
presentò con un inchino e un sorriso. Abitava in Italia da alcuni anni,
la sua famiglia aveva cambiato città molte volte e si era stabilita al
nostro paese da poco. Il suo italiano era approssimativo, ma in
matematica era bravissimo. Venne il padre a parlarci, ci teneva
moltissimo a che il figlio imparasse bene la lingua perché, ci spiegò:
“Palale cinese, lavolale cinese: 500.000 lile al mese. Palale italiano,
lavolale italiano: un milione al mese.”
I compagni erano affascinati: era un
bel ragazzo, alto e forte, quando giocava a pallavolo o a calcio batteva
tutti in destrezza e velocità, ma non si alterava mai, sorrideva sempre
ed era gentile con tutti. Era la sua cultura: mi spiegò che nella sua
scuola, in Cina, si era fatto punire spesso, ma qui era un ospite e
doveva comportarsi bene. Per l’educazione confuciana che aveva ricevuto
era inconcepibile opporsi ad un adulto; la domanda: “Hai capito? “ per
lui non aveva senso. Così rispondeva sempre sì con la sua inalterabile
cortesia e il solito sorriso, anche quando in realtà non sapeva di che
cosa si parlasse.
Il pomeriggio lavorava con la famiglia
in un capannone dove decine di persone vivevano, lavoravano, mangiavano
e dormivano tutte insieme.
Verso la fine dell’anno iniziarono
assenze sempre più frequenti, non abbiamo mai saputo il perché. Per
fargli capire che doveva presentarsi agli esami fui costretta a mandarlo
a prendere dall’assistente sociale. Poi si trasferì di nuovo e lo persi
di vista.
L’ho incontrato qualche anno fa, ormai
adulto. Mi ha visto ad un semaforo e si è fermato per salutarmi, sempre
con il suo sorriso gentile. Era alla guida di una grossa auto.
Deve aver imparato a “lavolale
italiano”.
Daniela Borsato
|