IL VINO NELLA POESIA DI ORAZIO - Ipertesto

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PERCORSO INTERDISCIPLINARE SUL VINO NELLA POESIA ORAZIANA
a cura di Gisella Malagodi

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Partendo da Orazio e spulciando tra i vecchi libri del liceo  ho  approfondito la mia ricerca sul significato che di volta in volta assumono il banchetto e il vino nelle odi oraziane, poi ho voluto dare uno sguardo al mondo e al pensiero greco, dove accanto alla famosa ode anacreontica che canta il vino e il bere, intesi solo come superamento della realtà, ho trovato anche un aspetto mistico-religioso collegato al tema del vino nell’Invito all’Erano di Saffo.. A questo si è contrapposto Alceo che vede nel vino una mitigazione del dolore.  In Omero poi, oltre alla brutale volgarità del Ciclope ubriaco, ho scoperto il senso comunitario e conviviale del banchetto

Virgilio riprende e rielabora tutti questi temi con un’arte ed una tecnica squisitamente latina, per esempio nel convito di Didone e nell’episodio del Ciclope.  Con un balzo di qualche secolo ho scoperto nella satira umoristica del Redi le peripezie pazze del Bacco ubriaco, per arrivare col “Trionfo di Bacco e Arianna”, attraverso quella che può sembrare una giocosa celebrazione del culto bacchico, ad una meditazione sul senso stesso della vita.

Strettamente legato al mondo classico ed in particolare al significato che assume il vino in Orazio, ho scoperto in “Solon” di Giovanni Pascoli il rimpianto della giovinezza e la triste vecchiaia dimenticati nel piacere del convito e nella voce dei cantori.

Il vino era la bevanda preferita dai Romani, che lo consumavano soprattutto a cena. Ce ne erano molte qualità: quelli pregiati, come il Mareotico d’origine egiziana, quelli esotici di Chio e Lesbo, quelli più comuni, come il Vaticano e il Sabino.  Terminata la fermentazione nei “dolia” (botti), il vino veniva conservato in anfore d’argilla (o in damigiane di vetro) con il collo chiuso da tappi di argilla o di sughero. Le anfore si stappavano durante i banchetti con un ”colino” ed il vino veniva filtrato, prima di versarlo in un grande vaso vinario (lagoena) dal ventre largo e dal collo stretto: come si legge in Orazio “liquare” era diventato sinonimo di “mescere” (Odi, 11).

Il vino puro era prescritto nelle libagioni rituali, mentre di norma durante il pasto esso veniva mescolato con acqua in proporzione di un terzo o, al massimo di quattro quinti.  La miscela di vino e acqua veniva fatta nel crater, dal quale si attingeva per versare nelle coppe con una specie di mestolo a manico lungo “cyathus” (Orazio, Carm. I, 29,8).  Il vino, mescolato con il miele, serviva a produrre il mulsum, cioè vino mielato, molto apprezzato soprattutto con gli antipasti (Marz. XIII, 108).

Nelle Odi da me prese in esame si trovano molti nomi di vini e una gran varietà di espressioni per introdurre l’argomento del bere e del banchetto: dal semplice mirto, bevuto all’ombra di un pergolato (I, 38) al vino collegato a danze, scherzi e giochi (II,19) al Falerno e agli ameni colli della sua coltivazione (II,6) al Massico, vino smemorante (II,7), al vino puro, invecchiato quattro anni, (I,9), al vino servito con fiori ed unguenti (II,3), al vino filtrato (I,2), al vino misto a danze e ringraziamenti agli dei (I, 37), al vinello di Sabina (I, 20), fino al Cecubo e al Mareotico e al Caleno.


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Ipertesto sul vino in Orazio