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ALLEGRIA

a cura di Gabriella Rapella ed Alessandra Bucchi

 

L'allegria è fondamentale

 

In corsia era impossibile vivere pensando solo a sé stessi. Non c'era né il modo né il tempo. Nel bene e nel male si cantava sempre in coro, e quasi mai a bassa voce. Forse maturò lì l'idea, che ho ancora, di un impegno sociale che fosse anche in qualche modo la risposta alla ricerca di un ruolo. Non sto a mitizzare nulla, dico solo che a un certo punto ho capito che aveva poco senso, soprattutto per me, pensare solo a me stessa, al mio corpo, a quello che ero o che non ero. Non si trattava di essere altruisti, caritatevoli, o generosi, o santi. Ammetto che fare quello che faccio dà soddisfazione a me, tanto per cominciare. Se c'è un merito, un elemento di bellezza, in questo, sta nel trovare soddisfazione in qualche cosa di valido, piuttosto che in puri egoismi, in idiozie, o affari disonesti. Ma non beatifichiamo gratis la gente. Neanche me.
Ricordo il contatto coi ragazzi del riformatorio. La comunità a cui erano stati affidati pensò bene di portarli a conoscermi. Non era un viaggio a Lourdes, ma nel loro piccolo cranio ribelle poteva infilarsi qualcosa di buono, se imparavano che la vita non è sempre scappare continuamente, o correre dietro ai soldi e alle cose da rubare. Se capivano come sia possibile correggere gli errori dei grandi distruggendo tutto. Come sia meglio, piuttosto, imparare a cercare cose nuove. Quasi tutti i tossicodipendenti mi chiedono perché non mi drogo. Qualcuno mi ha persino "consigliato" di farlo. Resta loro difficile comprendere come io possa accettare questa mia condizione. Hanno forse la sensazione, o il complesso di colpa, di aver ceduto prima e per molto meno.
Chi cerca forza per vivere è già forte.
Chi implora comprensione per soccombere, si è già rassegnato a perdere.
Io sono contenta, lasciatemelo dire, orgogliosa, di non essermi fatta sconfiggere. Non ho rimpianti. Ripeto che sono felice di aver vissuto questi venti anni, e sono pronta, con serenità, a vivere gli altri.
Serenità e allegria.
L'allegria è fondamentale.

Rosanna Benzi, in seguito a una malattia incurabile, ha passato 29 anni della sua vita in un polmone d’acciao in una camera nell’ospedale San Martino di Genova. E’ morta nel 1991 a soli 43 anni.

Rid. e adatt. da Rosanna Benzi, "Il vizio di vivere. Vent'anni nel polmone di acciaio" (a cura di Saverio Paffumi, 1989, Rusconi

 

APPARATO DIDATTICO

1 – Che cosa avrebbero dovuto capire i ragazzi del riformatorio dall’incontro con l’autrice del testo?

2 – Che cosa spinge Rosanna Benzi a impegnarsi nel sociale?

3 – Perché è soddisfatta di questa sua decisione?

4 – Che cosa prova l’autrice nel dedicarsi agli altri?

5 – Che cosa i tossicodipendenti trovano sorprendente in Rosanna Benzi?

6 – Conosci anche tu qualche persona che, nonostante il dolore, si è sempre mostrata allegra o ha deciso di dedicarsi agli altri? Racconta.

7 – Racconta in un breve testo quali sono le cose che ti danno allegria.

 

UN SUFFISSO PER UCCELLI

libro

Quando ero a Tokyo, qualche anno fa, decisi di mettermi a studiare il giapponese. Il mio maestro, che si chiamava, Watanabe-san, veniva da me tutte le mattine in motocicletta. Indossava un feltro grigio rialzato sulla fronte, un colletto duro con la cravatta a farfalla, a righe, un panciotto con un bordino bianco, una corta giacca nera e mutandoni di flanella. I pantaloni del vestito se li portava arrotolati e legati al portabagagli della motocicletta, per non infangarli percorrendo le strade non asfaltate di Tokyo.

Puntualmente, alle otto di ogni mattina, sentivo davanti alla casa un put-putting, e appena la motocicletta di Watanabe-san aveva esalato gli ultimi respiri, scendevo ad aprirgli. Entrava nel vestibolo inchinandosi e respirando rumorosamente attraverso i denti. Che lui venisse a quell’ora era stata una mia idea. Dovevo andare a lavorare alle nove e pensavo che quel sistema mi avrebbe consentito di risparmiare un po’ di tempo. Comunicandogli che avrei fatto colazione mentre lui mi insegnava il giapponese, non mi passò per la testa che avrebbe deciso di fare colazione con me. Pensavo che l’avrebbe fatta a casa sua, prima di salire in motocicletta, e siccome io non prendevo altro che spremuta di arancia e caffè, giudicai che non ci sarebbe stato niente di male se li avessi presi mentre lui mi insegnava la lingua del paese. Watanabe-san non trovò niente da ridire, ma dopo le prime due mattine si portò da casa la colazione, in una scatola di lacca rossa, che egli legava al portabagagli insieme ai pantaloni. Era una tipica colazione giapponese, con scodelle e piatti laccati di nero, complicatamente disposti e racchiusi dentro la scatola di lacca rossa. Piatti e scodelle contenenti pezzettini di pesce in salamoia, rape conservate, crema di fagioli, frittura fredda di bue, tiepida zuppa di malva, e riso stufato, venivano stesi sul mio tavolo: Watanabe-san cominciava a mangiare con i bastoncini che portava nella tasca superiore del panciotto. “Questa”, diceva, sollevando un quadratino di radice in conserva, “questa è daikon. In giapponese si chiama daikon. Ripeta insieme a me, daikon”.

“Daikon” dicevo io.

Watanabe-san insegnava inglese in un liceo della città; era ambizioso, piccolo, rotondeggiante e pieno di energia. Aveva denti in fuori, così lunghi e disuguali da dare l’impressione che, volendo, avrebbe potuto benissimo incrociarli, come si fa con le dita delle mani.  Quando parlava animatamente, era come se vi agitasse una mano in faccia. Il suo ghigno era circolare, a causa di quei denti, ed era, per la stessa ragione, incessante. Molti dei Giapponesi che incontrai avevano un riso nervoso, ma il sogghigno di Watanabe-san era un fatto puramente fisico. (…)

A mano a mano che le lezioni procedevano, l’osservazione più frequente di Watanabe-san cominciò ad essere “Sono molto spiacente: questo è un suffisso sbagliato. E’ un suffisso per uccelli” (…) Stava succedendo che Watanabe-san aveva cercato di insegnarmi dodici suffissi per ogni verbo che noi discutevamo e i soli suffissi che io sembravo capace di ricordare erano quelli che si sarebbero dovuti usare quando si parlava di uccelli. Forse a questo punto dovrei spiegarmi un po’ meglio. L' idea è pressapoco questa: in giapponese, quando si dice “andare” riferito o diretto a un servo, si usa un certo suffisso. Quando il verbo “andare” è riferito o diretto a tua padre, si usa un altro suffisso: inoltre si usa un suffisso decisamente diverso quando ci si riferisce o si parla della propria madre, e ancora, un altro quando ci si riferisce o si parla degli uccelli. Ci sono poi suffissi diversi per cavalli, soldati, pesci, poliziotti, cani, alligatori, autisti, ecc. Dodici suffissi semplici (così almeno dicono loro!) e dozzine di suffissi complessi per ogni verbo esistente nella lingua. A quel tempo i miei non erano in Giappone, e questo semplificava già molto le cose, ma per le prime due settimane o giù di lì, e per qualche ragione oscura che non voglio neanche ricercare, sembrava che riuscissi a dimenticare tutti i suffissi di tutti i verbi che imparavo, ad eccezione di quelli per gli uccelli, cosicché qualsiasi cosa io dicessi in giapponese, mi trovavo a parlare di uccelli. Per esempio, imparai (o credetti di imparare) a dire ad un conducente di taxi: “Prego, girate all’angolo e fermate davanti alla piccola casa di pietra sulla destra” Ciò che invece dissi, mentre ero convinto di dire quanto su riportato, fu, secondo la susseguente lezione di Watanabe-san “Uccelli, prego, girate all’angolo e smettete di volare di fronte alla piccola voliera di pietra sulla destra”. (….)

Comperai, dietro suo suggerimento, un grande e vasto dizionario inglese-giapponese che servì a farmi insabbiare ancor di più, quando non avevo con me Watanabe-san a cavarmi d’impiccio. (…)

 

Tratto da Saint Clair McKelway, Umoristi del Novecento, Garzanti.

 

 

APPARATO DIDATTICO

1 – Ritrova nel testo i dati riguardanti l’aspetto fisico del maestro Watanabe-san. Scrivi un breve testo di presentazione del personaggio corredato dal disegno del personaggio stesso.

2 – Watanabe-san viene descritto anche nel carattere. Riporta le espressioni che ti permettono di ricostruire le caratteristiche psicologiche del personaggio.

3 – Fra il narratore e il maestro esistono solo differenze linguistiche? Se no, quali?

4 – Cosa sono i suffissi? E i prefissi?

5 – Prova ad aggiungere alle seguenti parole (utilizzare, scoppiettare, scorrere, detestare, permeare, avvolgere) i suffissi – ante, - ente, - evole, -bile. In tutti i casi le parole ottenute hanno un significato?

6 – Le seguenti frasi italiane sono ambigue, cerca di capire il motivo

- Una vecchia porta la sbarra

- Ho letto un libro sul Monte Bianco

- Luisa e Maria hanno comperato gli occhiali da sole

7 – Inventa un breve racconto nel quale il fraintendimento di una parola o di una frase dia luogo a conseguenze comiche.

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