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I mezaràt, “mezzi topi” sono gli abitanti della Valtravaglia, zona delle Alpi lombarde dove l’autore trascorse parte dell’infanzia e dell’adolescenza. In una terra poco ospitale, costretti spesso a lavorare di notte – come i topi, appunto – per un magro guadagno, essi hanno sviluppato un’arte che agli occhi del giovane Fo sembra una magia coinvolgente e travolgente: l’arte dell’affabulare, del “contare” storie e favole con tale bravura e capacità di fascinazione sull’ascoltatore da trasportarlo lontano se fantastiche, o da farlo ridere a crepapelle se comiche, o da farlo piangere se tristi. Quell’arte sarà, poi, la scelta di vita di Fo, una volta accantonata l’idea della pittura che lo aveva spinto da ragazzo a frequentare l’Accademia di Brera a Milano.
Tutto, in questo libro, vorrebbe apparire filtrato attraverso gli occhi del bambino: dai treni che passano sbuffando nelle stazioni dirette dal padre, capostazione antifascista, alla Svizzera, terra libera e favolosa al di là del Lago di Como, dove le case hanno i tetti di cioccolata, alle pianure acquitrinose della Lomellina, dove vive il magnifico nonno Bistrìn, cantastorie anche lui e vecchio saggio, grande maestro di vita e profondo conoscitore delle tradizioni contadine e dei segreti della terra. A questa scuola, che è la scuola dei campi, della strada e della vita prima ancora che dei libri, si forma l’arte teatrale di Dario Fo, la cui esperienza passa anche attraverso gli anni bui del Fascismo e della Seconda Guerra Mondiale.
Lo stile è fresco e frizzante, il linguaggio immediato, non esente da espressioni colorite e/o dialettali spesso ammiccanti e smaliziate: si ha la netta impressione, talvolta, che dietro il bambino o il ragazzo si nasconda l’adulto beffardo, che guarda con aria divertita e un po’ nostalgica la palestra della sua vita.

(Paola Lerza)

 

Questo è un libro che sta sul mio comodino dalla prima volta che l’ho letto, un bel po’ di tempo fa. Sta lì perché è uno di quei libri che ti viene voglia di rileggere ogni tanto e che ogni volta ti sanno dire qualcosa di nuovo, a seconda del tuo stato d’animo del momento, o di quello che hai vissuto nel frattempo. È un viaggio in un arcipelago dell’anima e del mondo, “un almanacco di isole fantastiche e comete avventurose, una semiseria cartografia interiore” che svela ad ogni rilettura aspetti diversi; così c’è l’isola delle donne, che “è sempre stata un maledetto pantano. Le scarpe si sono conficcate nel fango, ma le donne no. Le donne sono andate a prolungare altrove la loro camminata, lasciando il ricordo di un gesto, l’ombra di un passo, l’assenza viva del loro corpo, collanine di rancori”. E l’isola del momento dopo, “piena di gente che vorrebbe tornare indietro”, e quella dei soggetti implosi, “in cui ci si fraintende e ci si desidera”, e dove “si è sempre d’accordo su tutto quanto non si è appena detto”. C’è l’isola dell’abbandono, che “ha la forma spigolosa e irregolare del ricordo”, e quella del ritorno, deludente per chi la vede per la prima volta e si chiede “ma… tutto qui? Sì – verrebbe da rispondere – tutto lì, che sta in agguato e attende.” E ancora l’isola degli essere incerti, dove “la luce sa di essere una forma dello sguardo”…
Ogni tanto torno a visitare qualcuna di quelle isole, o a salire sopra una di quelle comete, e le trovo sempre diverse.
Davvero non posso fare altro che augurarvi buon viaggio.

(Monica Anelli)

 

                                                      

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