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Capita, a volte, di leggere storie pensando che possano essere solo frutto della fantasia di qualche ispirato autore. Sarebbe bello poterlo pensare anche di una storia come quella di Iqbal. Purtroppo, però, è questo invece uno di quei casi in cui la realtà è forse ancora più tragica e crudele di quanto possano riuscire a descrivere le parole di un libro. Non c’è alcuna fantasia dietro la storia di Iqbal, ma solo la cronaca di un’atroce realtà, la realtà di tanti bambini privati delle loro identità, della libertà, dei loro diritti: il diritto di sognare, di giocare, di essere felici e spensierati, il diritto di essere bambini!
La loro vita è tutta racchiusa in quella dannata fabbrica più simile ad una prigione in cui le sbarre sono sostituite dalle trame stesse dei tappeti che quelle manine tessevano senza tregua, dalle tacchette segnate sulle loro lavagnette, che, una volta cancellate, avrebbero, a detta del temuto “padrone”, annullato il “debito” schiudendo le porte della libertà.
Già… il debito! Il debito di essere nati in una povera provincia del Pakistan, di provenire da famiglie disagiate, alle quali, nonostante tutto, non vedevano l’ora di ritornare. Un debito che nessun sacrificio avrebbe mai potuto cancellare se non il sacrificio della loro stessa vita. Ed è proprio alla storia di questi bambini, più specificatamente di un piccolo pakistano di nome Iqbal che si è ispirato Francesco D’Adamo, uno scrittore milanese, ma anche un insegnante esperto in pedagogia che si è molto interessato alle tematiche adolescenziali. Fra i suoi scritti si ricordano: “Lupo Omega”, “Mille pezzi al giorno”, “Bazar”, ”Storia di Ouiah che era un leopardo” e “Storia di Iqbal”, per la quale ha ricevuto numerosi premi, tra cui il premio Andersen.
Questo libro è una vera e propria testimonianza che riflette la realtà assurda e tragica della vita di Iqbal Masih che iniziò a lavorare già a quattro anni, dopo essere stato venduto dai suoi genitori. Era costretto a lavorare per ben quattordici ore al giorno, incatenato al suo telaio. Cercò di fuggire molte volte ed un giorno, riuscito a scappare, chiese aiuto ai poliziotti, nel tentativo di far liberare anche i suoi amici, tentativo inutile, considerando la corruzione della polizia locale che lo aveva riconsegnato nelle mani del suo padrone.
Iqbal era un bambino coraggioso che aveva capito che il modo migliore per vincere la paura era incutere paura, come emerge da una sua stessa frase:” Non ho paura del mio padrone, ora è lui ad aver paura di me”.
In realtà lui aveva paura, ma ebbe il coraggio, la forza e la determinazione di lottare per vincere le sue stesse paure, per andare incontro alla libertà, alla luce, alla vita!
A tredici anni, dopo questa estenuante lotta, era finalmente libero, una libertà effimera, cancellata bruscamente da un vile agguato tesogli un giorno, mentre si recava in chiesa con la sua bicicletta, dalla cosiddetta “mafia dei tappeti”.
Ma Iqbal non è l’unico eroe di questa vicenda, lo sono anche tutti gli altri bambini rinchiusi con lui, e lo è anche Fatima, un’amica di Iqbal, ridotta in schiavitù in così tenera età da aver anche cancellato tutti i suoi ricordi dell’infanzia.
Eshan Khan era il capo del fronte per la lotta contro lo sfruttamento minorile, amico e complice di Iqbal nella sua lotta per la libertà. Hussan Khan era il temuto e crudele padrone della fabbrica di tappeti che si considerava anche il padrone di quelle piccole vite, facendole vivere in condizioni pietose ed infliggendo loro punizioni terribili.
Questo libro, caratterizzato da un linguaggio semplice, è un libro interessante ed avvincente. Penso che la “Storia di Iqbal” sia molto emozionante e commovente; difficile, infatti, leggere le pagine del libro senza essere costretti a fermarsi e a riflettere nel tentativo di vincere la commozione. La tenacia, la determinazione ed il coraggio di Iqbal dovrebbero costituire un esempio per tutti coloro che vivono, purtroppo, situazioni simili. Iqbal era poco più di uno schiavo che, con il suo esempio e con il suo sacrificio, è riuscito a donare una speranza a tutti i bambini, vittime di adulti spietati e senza scrupoli, perché, nonostante la sua morte, l’unica certezza è che … Iqbal ha vinto!

(Sara Sallustio - classe II G Istituto “Michelangelo” di Bari - vincitrice del premio Segnalibro dedicato a Daniela Borsato per la sezione Scuola Secondaria di I grado)

 

 

Un attimo… già, a volte basta un attimo e la vita prende una piega strana: Santo Denti, pubblicitario milanese di successo, si risveglia dolorante sul pavimento di un bagno della Scala durante la rappresentazione della Manon di Massenet, senza più coscienza della propria identità. Anzi, a dirla tutta è convinto di avere 14 anni di meno e di essere un piccolo spacciatore di cocaina nella Milano dei primi anni ’90, noto nel giro col nome di Trafficante: esattamente quello che era, in effetti, prima di darsi una ripulita e cambiare vita. Come se questo non bastasse, qualche ora dopo scopre anche di essere il principale indiziato in un assassinio: ha poco tempo per ricostruire la sua esistenza fino alla sera prima e per capire se e perché possa davvero aver ammazzato un uomo.
È un noir dal grande ritmo, questo: lo stile segue il rapido succedersi degli avvenimenti con frasi brevi e concitate; il passato riaffiora all’improvviso nei fotogrammi veloci e confusi che spezzano la narrazione, restituendo tutto il senso di angoscia di chi ha urgenza e paura al tempo stesso di ricostruire il proprio vissuto e la propria identità.
Santo/Trafficante è un personaggio ben definito, cui l’autore regala uno sguardo acuto e un’ironia tagliente: vista attraverso i suoi occhi, la Milano fredda e anonima che fa da sfondo al racconto è una città molto diversa da quella “da bere” che affiora dai suoi ricordi annebbiati; e l’amnesia è l’espediente narrativo che lo autorizza a criticare ferocemente il luogo e l’ambiente sociale nel quale ha vissuto e lavorato solo fino a pochi giorni prima.
Santo e Trafficante, diversi come il giorno e la notte, sono le due anime di una stessa persona: quale delle due sopravviverà?

(Monica Anelli)

Il mio nome è Sandrone Dazieri, come il mio autore. E come il mio Socio, quello che voi chiamereste alter-ego. Quando non lo chiamo Socio, lo chiamo l’Altro. Sono un tipo poco raccomandabile, sgangherato, schizofrenico, ex frequentatore di centri sociali. Il Socio è ben altro, è quello che mi lascia appunti dei fatti quando sono stravolto dai… fatti, quello che ha più i piedi per terra. Il concreto, insomma. La tizia che digita ‘ste robe con mani intirizzite non è il mio tipo ma lei pensa che, qualche anno fa, io sarei stato il suo, di tipo. Lasciamoglielo credere, cavolo, sta digitando di me. Parliamo della storia, però. E’ una storiaccia che si svolge tra Torino, Milano e Cremona, tra immigrati albanesi (uno ci rimane secco), un editore di stronzate porno, un’affascinante ragazza slava, e poi c’è Vera, una tipa di oggi. Compaiono i miei amici, tutti ex leoncavallini, compagni di tutto e di niente. L’altro Dazieri, quello che scrive,  è uno tosto. Abbiamo molte cose in comune, non vi dico quali. Lo scrittore è lui, ed è grande. Brillante, ironico, a tratti stralunato e surreale. Ricostruisce situazioni che richiamano il cinema, i fumetti, gli anni del movimento. Quando l’arte era tutto e tutto era arte.
Un’ultima cosa, non è un noir, un thriller o roba del genere. È giallo puro.
“Un grazie di cuore da me e dal mio Socio” (è l’ultima pagina, davvero) e visto che ci sono e che ci sei, tastierista, un grazie pure a te per aver scelto me e non, che so io… il tuo concittadino.
Se capiti a Cremona, ti porto alla trattoria del Sabbiaiolo, hanno un unico cd, Miles Davis, You're under arrest. Sorridi, adesso, eh?

(Maria Cristina Rosa)

 

 

Breve e lieve come il respiro di un bimbo, come il battito d’ali di una farfalla, stupefacente come entrambi, questo racconto di Erri De Luca, sensibile, colto e raffinatissimo lettore delle Sacre Scritture, ci consente di affacciarci sul Mistero della Natività con lo sguardo dell’uomo attonito di fronte al divino. È la storia di Miriam/Maria davanti, ella proprio, al Dogma dell’immacolata concezione.
- “In nome del padre”; inaugura il segno della croce. In nome della madre s’inaugura la vita. – Così le parole dell’autore, questo il senso profondo della narrazione. E nessuno meglio di lui è in grado di presentare rapidissimamente quanto accadde più di 2000 anni fa, quanto lui ci vuol raccontare. Tutto comincia dall’annuncio a Miriam/Maria, ebrea di Galilea, ed è lei stessa a dire come il vento che si avvitò al suo fianco sciogliendo la cintura lasciò seme nel grembo…facendola matrice di un figlio di dicembre che è luna di kislev. Le parole cariche di simboli costruiscono tutta la storia di quella maternità che è universale, compiono il Mistero davanti ai nostri occhi di lettori incantati, come successe alla Donna in quei tempi remoti che gran parte dell’umanità ricorda ogni anno, il 25 dicembre.
La scrittura è magica, come l’evento narrato, le parole, tutte, magistralmente, ci consegnano il santo evento come una storia umana e divina insieme. L’umano spiegato attraverso l’amore di Giuseppe e Maria, attraverso la Legge degli umani, attraverso il censimento di quel periodo storico e il ritorno obbligato a Bet Léhem e, ancora, il ventre pregno dell’adolescente che non aveva conosciuto uomo, attraverso il “rumore” della gente davanti al presunto scandalo, le preoccupazioni di una madre nell’attesa, e l’attesa che compie un destino. E poi il divino appena accennato, che però tutto permea, nelle premonizioni sublimi dopo la nascita e nella stella che l’accompagna e solo in quelle, perché la storia umana e divina insieme si conclude con tre Canti umani, di preghiere umane, di domande umane, di paure umane, perché è la storia dell’inizio del Cristo che fu uomo ed è Dio. Ma la sensibile scrittura di De Luca si ferma a quell’inizio perché il resto è luce della Fede, oltre l’umano.


(Sonia Nicoletta Solomonidis)

“Basta, vado a vedere!” E dopo un‘ennesima notte insonne, Lucetta partì.
Aveva diciotto anni, era figlia di un Sottosegretario della Repubblica di Salò e, nata in Italia, viveva a Parigi.
Cosa voleva andare a vedere? Quello che succedeva in Germania, nei lager di concentramento, di prigionia militare, campi di passaggio, campi di stermino che però non si chiamavano così. E vi andò come lavoratrice volontaria, con un’organizzazione “che prometteva cose fantastiche”, amava raccontare.
Fu imprigionata perché partecipò ad uno sciopero e, uscita dal carcere, tentò il suicidio. Venti buste di veleno per topi.
Fu rimpatriata ma, giunta a Verona, gettò lo zaino con i suoi documenti e si infilò in un gruppo di deportati. Dachau.
Poi l’evasione e, tra una fuga e l’altra, si trovò a Magonza, dove, per tentare di salvare delle persone prigioniere sotto le macerie dopo un bombardamento, rimase incastrata nel crollo di un muro.
Uscì viva. Ma sulla sedia a rotelle.
E il racconto continua. L’ospedale, gli amici, il fidanzato, il marito, il figlio, la morfina, la disintossicazione…
La narrazione, autobiografica, non è cronologica e neanche sempre in prima persona.
E il perché del titolo si rivela alla fine, quando Lucetta racconta... “C’è un fatto che ho eluso. A forza di dire che ero stata deportata a Dachau ci avevo creduto. Ma non è vero. I miei compagni vennero trasferiti in quel lager. Io no. Fui rimpatriata.” Ma, giunta a Verona, butta via i documenti e si fa catturare volontariamente. E conclude: "…finalmente (ridevo tra le lacrime) anch’io sono stata picchiata, da sola, personalmente, adesso sono proprio come loro: bastonata sputata, in tutto come loro, non ricadrò nel mio ceto, mentre correvo correvo verso Magonza.”
Non è un caso se questo libro ha avuto una gestazione trentennale…
Chiudo gli occhi e vedo Lucetta di fronte a me, con il suo gatto sulle ginocchia. La voce dolce, a tratti incerta, a volte brusca. L’accento francese e quel modo di terminare la frase quasi arrotolando in fretta le ultime parole e lasciando che le mani, delicatamente, riempiano il silenzio con il gesto. E il suo sguardo. Quegli occhi neri e ribelli, profondi e scrutatori, quegli occhi dalle tante domande e dalle tante risposte. E, attraverso i suoi occhi, passano tutti i protagonisti del libro, anche quelli appena intravisti, che non hanno permesso al nazismo di distruggere la solidarietà. Quella forte, quella timida, quella scontrosa, quella nascosta.
Questo romanzo (romanzo di formazione?) non è una lettura piacevole. È un pugno allo stomaco, uno schiaffo sulla guancia, un getto d’acqua gelata improvviso. Perché leggerlo, allora? Perché “noi viviamo nell’ epoca della pubblicità e dell’ eufemismo, sotto il quale si maschera ciò che dispiace. Così si sono chiusi gli occhi sulla realtà del nazismo” (Luce D’Eramo)
E se riuscite a leggerlo una volta, leggetelo una seconda volta. Ripercorrete con Lucetta quelle strade che al primo passaggio appaiono in penombra e vi sarà più luce. Strade del cuore e della mente. Strade che portano all’altro, quell’“altro” verso cui l’odissea di Lucetta si è sempre diretta. L’uomo? La verità? Chi sono io per dirlo…

(Maria Cristina Rosa)

Un libro del ’93? Ma che strana idea… Non so neppure se sia ancora in commercio. Ora ci sono le news, le novità, i best-sellers…
Però mi piace parlarvene ugualmente.
A Luce D’Eramo arrivai passando per Silone.
Adottai, non ancora adolescente, l’autore marsicano come padre spirituale (politico? intellettuale? di coscienza?) senza che lui lo sapesse. Non saprei se ora ne sia venuto a conoscenza ma credo di sì, tanto sono frequenti i viaggi nel suo paese, sulla sua tomba, nel Centro Studi a lui dedicato e, soprattutto, nei suoi libri.
Torniamo a Luce D’Eramo.
Conobbe Silone tardi, negli anni ’60. Gli inviò un manoscritto che tutti gli editori avevano rifiutato, la storia della crisi di un ragazzo comunista.
Lui le rispose e scoprirono di abitare vicino, dalle parti di piazza Vittorio.
La loro amicizia durò fino alla morte di Silone, in Svizzera. Luce D’Eramo scrisse due libri e diversi articoli sull’opera di Silone.
Quel manoscritto “galeotto” si intitola “I ruminanti” ed è stato poi introdotto, sotto forma di racconto biografico, in questo libro.
“Ultima luna” è una storia di vecchiaia e di amore.
Bruno Gordini, il protagonista de “I ruminanti”, è un giornalista di mezza età, che vive in Giappone da vent’anni, dopo essere andato via dall’Italia a causa di una crisi con il Partito Comunista (crisi vissuta dalla D’Eramo e, prima di lei, da Silone).
Sua madre Alfonsina vive in una casa di riposo.
Due storie si intrecciano, quella del rapporto tra Bruno e sua madre, nell’ ultimo periodo di vita di quest’ultima, e quella del sentimento che nasce tra Silvana, la geriatra che ha in cura Alfonsina, e lo stesso Bruno.
Non pensate: “Ma che razza di trama!”. È vero, è un libro che tratta temi non facili, la solitudine, la vecchiaia, la morte. Ma il sentimento che nasce tra Bruno e Silvana ha il sapore di un dono inaspettato, di qualcosa di delicato e sorprendente. ”Bruno ed io invecchieremo insieme”, promette Silvana ad Alfonsina morente. E qualcosa nasce, passa di mano, rimane.
Uno strano romanzo e una strana scrittrice, dallo stile asciutto, senza fronzoli, talvolta “crudo e sgarbato”, come lo definì Enzo Siciliano.
Mi piacerebbe parlare più a lungo di Luce D’Eramo.
Della sua particolarissima vita, degli altri suoi libri, del suo amore per i gatti, di come riuscii a conoscerla…
Se non vi disturbo troppo, la prossima volta…

(Maria Cristina Rosa)

Parigi, 1942: nella notte tra il 16 e 17 luglio la polizia francese, per ordine del governo di Vichy, arresta circa 13000 ebrei, in prevalenza donne e bambini, rinchiudendoli per diversi giorni nel Velodromo d'Inverno, paurosa anticamera dei campi di concentramento. Prima di essere prelevata con i suoi genitori dal suo appartamento nel Marais, la piccola Sarah riesce a nascondere il suo fratellino in un armadio a muro segreto, con l'intento di tornare a liberarlo qualche ora dopo. La bambina è ignara del destino che la accomunerà a migliaia di altri ebrei in quello che è ricordato dalla storia come "la rafle du Vel’ d'Hiv", il più grande rastrellamento realizzato nel Paese durante la Seconda Guerra Mondiale e uno degli episodi più vergognosi della storia francese.
Una sessantina di anni dopo, Julia, giornalista americana ma parigina di adozione, è incaricata dalla rivista per cui lavora di condurre un'inchiesta sui fatti del Vel’ d'Hiv: nel corso delle sue ricerche un passato sconosciuto e angosciante irrompe nella sua tranquilla esistenza borghese, sconvolgendola.
Il racconto è appassionante, ricco di pathos e ben condotto soprattutto nella prima parte, dove si alternano due diversi piani narrativi e temporali. Nella seconda parte del romanzo la tensione si allenta, il ritmo cala e la storia si avvia verso un finale che appare piuttosto scontato. Nel complesso, comunque, l'opera coinvolge ed emoziona soprattutto per la tragicità dei fatti che richiama alla nostra memoria.

(Monica Anelli)

È una mattina di settembre. Il professor Tramontana, neo-pensionato, investe con l’auto un suo ex allievo, Thomas, proprio davanti alla scuola in cui insegnava. Con Thomas, Mario Tramontana non ha mai avuto buoni rapporti, tra le bravate adolescenziali del ragazzo, incompatibilità di carattere e – soprattutto – un segreto da custodire. È proprio da questo incidente, valutato come un atto volontario di violenza da parte del professore, che l’equilibrio della sua famiglia si sgretola. Italo, figlio di Mario, racconta il crollo di questo equilibrio ripercorrendo le fasi della sua crescita – il legame con il nonno e i conflitti con il padre, le prime cotte, la scuola, i faticosi studi universitari – dagli anni novanta agli anni duemila. In questo riattraversarsi, l’autore pone particolare enfasi sull’Italia del governo Berlusconi, anzi, dei diversi – o uguali - governi berlusconiani, e sugli avvenimenti salienti dell’epoca, fino ai giorni nostri. Infatti, il desiderio di Italo, studente di storia contemporanea, è proprio quello di scrivere una tesi su Silvio Berlusconi. Nonostante lo scetticismo e il rifiuto degli assistenti, Italo si ostina a raccogliere e archiviare articoli di giornale che troviamo fra le pagine del libro. Le riflessioni sul proprio mondo interiore e il proprio Paese si mescolano in questo archiviare e raccogliere, in un’Italia che cambia – o forse no – e in un Italo che vuole cambiare. “Tutto sta a riattivare la connessione tra i fatti del mondo e i fatti tuoi (…) Guarda intensamente questa pagina, questo titolo. Questa piccola pubblicità. Le previsioni del tempo. A questo punto, prova a ricordare. Dov’eri tu. Dove eravamo tutti”. Non solo gli equilibri familiari che crollano (il senso di fallimento del padre per un libro che non riesce a pubblicare, la madre partita a Berlino da un giorno all’altro e la sorella adolescente che ha una relazione proprio con Thomas, vittima dell’incidente), di Italo incontriamo anche l’amore della sua infanzia, Scirocco, che ricompare nella sua vita in un giorno come tanti, non più la bambina di allora ma un’adulta sensuale e quasi inafferrabile. Con lei, ora, sembra tutto possibile, e gli anni del nostro tempo acquistano un altro sapore: Berlino sarà il punto d’incontro dei protagonisti di questa storia, in cui Paolo Di Paolo (anno 1983) riesce a far rivivere una generazione considerata già persa, alla deriva, ma con la costante e inconfondibile voglia di cercare, ritrovarsi, arrivare da qualche parte, per capire dove siamo, dove eravamo.

(Chiara Canu)

 

Nel libro si racconta la storia sfortunata e inedita dei genitori di Ermanno Di Sandro che, nel 1956, emigrarono negli Stati Uniti viaggiando sulla gloriosa nave di linea italiana Andrea Doria, orgoglio nazionale. Erano in cerca della "terra promessa", ma la nave, nella notte tra il 25 e il 26 luglio, fu speronata dalla Stockholm, nave passeggeri svedese con la prua rinforzata. Il disastro della vicenda è narrato con insolito spirito di partecipazione, visto che durante le operazioni di salvataggio perì la sorella Norma di appena 4 anni. Quell'evento ha segnato profondamente la vita dell'autore. Sebbene sia nato due anni dopo, la presenza della sorella è stata per lui sempre costante. Ermanno Di Sandro è certo che il suo angelo custode sia proprio Norma e racconta di alcune grazie ottenute per sua diretta intercessione. Il suo affetto per lei è talmente grande che si dice infine certo che tutti coloro che pregheranno per Norma avranno un sostegno da Lei. Tra l'altro chi ha avuto modo di seguire sui canali RAI la puntata di "Ulisse" - l'interessante trasmissione curata da Alberto Angela - sul naufragio dell'Andrea Doria, avrà potuto notare che il dramma di Norma è stato illustrato fin nei minimi dettagli. E così quello che poteva sembrare un freddo e distante documentario, per chi ha letto il libro assume invece i contorni di una dolorosa ed intima vicenda familiare.

(Giuseppe Landolfi)

Un ragazzo di 13 anni, Pietro, scrive ogni giorno, più volte al giorno, a Marianna, una donna molto più grande di lui alla quale lo lega un rapporto unilaterale forse d’amore, forse una fantasia, chissà. A poco a poco quella che sembra una romantica infatuazione adolescenziale si trasforma in un’ossessiva, disperata, concreta richiesta d’aiuto. Pietro ha bisogno che qualcuno aiuti lui e sua sorella, “la mocciosa”, a salvarsi da una strana, misteriosa, spaventosa situazione familiare. Inizialmente sembra la storia banale di una separazione, di genitori distratti e ostili tra loro, una vicenda come tante altre. Ma non è così: la storia prende i contorni di un giallo, Pietro intuisce il pericolo e il male che emana dai perfidi Nespola ai quali i genitori hanno affidato i ragazzini; una madre indifferente e sprovveduta e un padre vittima di gravi errori non possono aiutare lui e la “mocciosa” a liberarsi. Se gli adulti sono cattivi o irresponsabili dovrà fare l’adulto lui, anche se non ne ha voglia e l’unico suo desiderio è la normalità: la famiglia, la scuola, l’amore per la compagna di banco. L’unico aiuto che potrà dargli Marianna è la testimonianza di quanto è accaduto.
Una storia angosciante, ma a tratti anche divertente, di solitudine e paura, di rivolta contro un mondo adulto incapace di dare le semplici banali risposte che cerca un ragazzino come tanti altri, solo più sensibile e coraggioso.

(Daniela Borsato)

                                                      

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